mercoledì 26 settembre 2012

Free. Free, everything you ever wanted. Fuck me.

In barba alle multinazionali macina-banconote, ecco che la Matador - piccola realtà discografica indipendente - per l'ennesima volta in due decenni, da alle stampe l'ultima fatica di Chan Marshall, al secolo nota come Cat Power.

Sun esce a distanza di sei anni dal bellissimo The Greatest e, stranamente, a differenza di altri artisti di fama quantomeno nazionale, quando si parla di Cat Power non si parla di qualcuno che lascia in febbrile attesa fan in crisi d'astinenza da nuovo album, piuttosto si pensa a un'artista che, nel bene o nel male, non stanca mai perché il il suo punto di forza è un genere che difficilmente viene a noia, ma del quale altrettanto difficilmente si sente la mancanza. Personalmente penso che ogni lavoro dell'artista abbia la forza di vivere di se stesso, senza bisogno di un successore o qualcosa che ne confermi la grandezza o l'inferiorità. Ogni suo lavoro è così pregno di personalità che chiedere quale sia il migliore sarebbe come chiedere a una madre a quale figlio vuole più bene. C'è però da dire che, in questo caso, ascoltando il disco, ciò che salta all'orecchio è che nonostante viviamo in una realtà dove ci si deve abituare all'involuzione di un artista, c'è chi come Chan - e qui l'esempio dei figli calza a pennello - fa crescere la propria musica disco dopo disco e qui, dopo infanzia e pubertà, arriviamo tranquillamente all'ipotetica maggiore età.

Dal 1995, infatti, il suono dell'artista è mutato fino a raggiungere una raffinatezza e una bellezza che forse solo lei come donna riesce ad essere un esempio e un paragone 'estetico' calzante. La bellissima e talentuosissima cantautrice riesce di fatto la lasciarti addosso quella sensazione di compiuto che in pochi nella discografia post 2000 riescono a fare. È passata dal suonare una chitarra come solo accompagnamento alla sua voce pacata e soave, ad arrangiamenti che si avvicinano a un pop mai banale ma, anzi, assolutamente delizioso e coinvolgente. In questo lavoro riesce persino a cimentarsi in semi-cavalcate alla Black Sabbath senza sembrare ridicola. Sfido chiunque a non assumere un'espressione soddisfatta e compiaciuta, come se stesse ascoltando una qualsiasi "Iron Man", durante l'ascolto "Silent Machine". Se ci riuscite, provate a non muovere la testa su pezzi come "3, 6, 9" e "Cherokee" o a non restare ammaliati da pezzi come "Ruin" e "Manhattan". C'è persino modo di capitolare in atmosfere anni '70, con una lunghissima (oltre i dieci minuti), psichedelica ed evocativa "Nothin' But Time" che dalla metà del pezzo in poi ospita il miglior Iggy Pop che fa capolino con il suo irresistibile e affascinantissimo timbro vocale.

Il disco finisce l'addove non ti aspetti, ed è difficile non rimanere sorpresi e divertiti durante la conclusiva "Peace and Love" che altro non è che un midtempo che sfocia quasi nell'r'n'b di oggi, quello che strizza l'occhio al rap, ma di certo senza mai risultare ripetitivo o già sentito.

Diciamocela tutta, per gli amanti del genere questo è un inatteso ritorno che, sommato al fatto che fra le mani abbiamo un gran bel disco, a mio avviso dovrebbe accompagnare molti dei vostri risvegli. Buon umore e serenità assicurati.

Se invece riusciste a svegliarvi con affianco lei... tanto meglio!


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