martedì 13 novembre 2012

A thousand days before

"La pausa di 12 anni è finita ed è ora di ricominciare la scuola. I Cavalieri della tavola del suono sono tornati!" - E COSÌ SIA!

Esce oggi il tanto atteso King Animal, il nuovo disco dei Soundgarden!

Il primo dopo quindici anni di silenzio, il primo di una band che, a scatola chiusa, non ha dato da sperare più di tanto, ma che fin dalla prima traccia, la ormai già conosciuta "Been Away For Too Long", spalanca torace ed orecchie a nuove prospettive e ripaga alla grande le aspettative che un fan medio poteva essersi fatto.

Era difficile pensare di ritrovarsi davanti a qualcosa di veramente buono, soprattutto perché, diciamocelo, tutti son felici se la 'band preferita' si riunisce dopo anni, felici di poter vedere finalmente dal vivo chi si è perso 'ai tempi d'oro' per una questione prettamente anagrafica, ma in pochi credono più di tanto in un ritorno discografico degno di nota, soprattutto dopo i risultati ottenuti da altri progetti rinati con lo stesso intento.

Prima di loro, per esempio, riunitisi nel 2007 dopo lo split del 2000, gli Smashing Pumpkins, che con il loro primo disco post-reunion avevano bastonato le aspettative di chiunque ne avesse nutrito un briciolo, con un lavoro mediocre che definire 'esercizio di mestiere' è quasi come far loro un complimento. Certo, la band di Billy Corgan si è riscattata un minimo con il disco uscito quest'anno, ma tant'è, la delusione c'è stata e a fatica ce ne si può scordare.

Non ci si può prendere il lusso di usare il nome storico di una band e giocarci a biglie, o sei cosciente del fatto che potresti rovinare un monumento costruito con fatica e dedizione e quindi fai di tutto per onorarlo, o lasci perdere. Nel caso dei quattro di Seattle, la band è stata all'altezza del nome che porta e non date per scontata la cosa, perché, appunto, non lo è affatto.

E chi l'avrebbe mai detto? No, dico... voi, dopo le ultime due uscite cacofoniche degli Audioslave e i gli ultimi due episodi da dimenticare di Chris Cornell solista, dopo i trascorsi di un Matt Cameron completamente snaturato e a mio avviso costretto dietro i tamburi dei Pearl Jam da quattordici anni a fare ciò che non gli compete, ad intraprendere un lavoro non suo, vi aspettereste un bel disco? Io, in tutta sincerità, no.

Ero piuttosto spaventato all'idea e invece con questo King Animal si rimane basiti canzone dopo canzone per il semplice fatto che ogni pezzo preso singolarmente è confezionato così bene, ma così bene che quasi ci si può tuffare indietro di un ventennio. Ci sono brani così evocativi e, allo stesso tempo, mai banali o auto-celebrativi che causano una crescita spontanea di flanella addosso. È un disco così ben suonato che pare non abbiano mai smesso di fare musica assieme in questi ultimi quindici anni.

La voce di Cornell, inaspettatamente potente e spesso priva degli echi che hanno caratterizzato gli ultimi live, è ricamata alla perfezione sulle linee di chitarra del poderoso Kim Thayil, linee che anch'esse vanno ad accompagnare e completare le sonorità ruvide di un duo ritmico di cui un po' tutti gli appassionati del genere hanno sentito la mancanza. Matt Cameron finalmente riesce a tornare dietro dei tamburi che gli rendono giustizia e il basso sporco, ma allo stesso tempo imponente e solenne, di Ben Shepherd da il tocco finale a un prodotto che di certo non cadrà nel dimenticatoio tanto facilmente.

Difficilmente riuscirete a farne a meno dopo i primi ascolti, difficilmente i pezzi su questo disco riusciranno ad esservi indifferenti. Fidatevi.

Insomma... la tavola del suono è imbandita, buon appetito!

Back in the Saddle, again!

Sono passati quasi quarant'anni dal loro esordio discografico e undici dal loro ultimo ultimo lavoro in studio. Tre raccolte - due antologie e una selezione di cover blues - separano Just Push Play, disco pubblicato nel 2001, dal nuovissimo Music From Another Dimension!, già nei negozi da questo martedì 6 Novembre.

Il disco in realtà doveva uscire lo scorso maggio, ma gli impegni del cantante come giudice ad American Idol, hanno fatto slittare la data della release.

Fra gli addetti ai lavori si è fatto un gran parlare di questo lavoro. In molti, infatti, dopo le voci messe in giro nel 2009 dal chitarrista Joe Perry riguardo la defezione di Steven Tyler e il suo capitolo definitivamente chiuso con la band, davano i cinque veterani del pop rock di Boston come finiti e le speranze di un ritorno discografico degli Aerosmith più come una bieca speranza piuttosto che come qualcosa di plausibile.

Al contrario di ogni aspettativa invece, il disco c'è e per di più si lascia ascoltare con entusiasmo!

Già dai primi mesi del 2011 infatti, il bassista storico della band, Tom Hamilton, lasciò trapelare qualche curiosità riguardo al materiale che stavano accingedosi a scrivere, e nel farlo non nascose che la band era seriamente intenzionata a lasciare da parte le 'sperimentazioni moderne' degli ultimi due lavori e ritornare a un sound più vicino alle origini, tanto da mettersi attorno ad un tavolo e pianificare il tutto affiancati dal primo produttore scelto per le registrazioni, uno dei Re Mida del mixer: Brendan O'Brien (sostituito successivamente in corso d'opera da Jack Douglas).

Non c'è da sorprendersi se ascoltando questo lavoro vi è la conferma che la band ha raggiunto l'obbiettivo che si era posta. Fin dalla prima traccia infatti,  si respira senza troppa fatica l'aria che si respirava nei pezzi che di fatto non solo hanno scritto la storia della band, ma anche di un certo tipo di rock in quelli che erano gli anni d'oro del genere.

Non esagero quando dico che alcuni pezzi sembrano quasi pezzi esclusi da dischi come Toys in the Attic o Rocks (ho detto esclusi, chevvelodicoaffare?), senza escludere i più recenti Permanent Vacation e Pump. Un pout pourri di tutto ciò che li ha resi dei pilastri della musica di un certo tipo, un mischione che l'ascoltatore medio, ma anche quello attento, non disdegnano di certo.

Sessantaquattro anni e non sentirli, insomma.

Traccia dopo traccia il sentore che si ha è che quello che si propaga nell'aria è un sound immortale, prodotto da cinque elementi che nonostante le vicessitudini personali, nonostante i problemi passati con alcool e droga, nonostante i dissidi interni, le defezioni, gli addii e i ritoni, nonostante tutto e tutti riescono comunque nell'intento di rendere la musica padrona indiscussa di tutto quanto, un collante efficace e cinvincente che rende ammaliante ogni cosa da loro prodotta.

Non siamo di fronte ad un capolavoro, chiaro, ma vorrei proprio sentire qualcuno di voi dire che gli Aerosmith sono capaci di scrivere ed eseguire brutte canzoni.

Oh baby, baby... it's fuck time

Ci eravamo lasciati con il primo capitolo della trilogia del gruppo di Berkeley. Due mesi fa, infatti, usciva ¡Uno!, disco che apriva le danze all'ennesima opera mastodontica griffata Green Day.

Opera che prosegue con ¡Dos! che arriverà nei negozi proprio oggi!

Ad un primo ascolto pare il proseguimento naturale del predecessore, ma prestando un po' più di attenzione si può notare che c'è un bel po' di carne in più sul fuoco; a partire dal sound, che risulta essere un po' più elaborato, meno spensierato, un po' più granitico negli arrangiamenti e decisamente meno ridondante del predecessore. Si può notare un piccolo sforzo nel voler far si che questo disco faccia si parte sì di una trilogia, ma con la voglia di vivere vita propria.
Mentre col primo lavoro alla mente ritornano i fausti della gioventù e del power pop dei primi dischi, ascoltando questo materiale pare che la band voglia dimostrare di saper essere anche di più. I pezzi giocosi e cazzari lasciano spazio a un sound più veloce e grezzo e ad una voce spesso in sordina come a ricordare la vecchia garage anni '70.

Con arrangiamenti un po' più 'pensati', ma allo stesso tempo granitici, questo capitolo si distingue dal precedente anche per una compattezza dei pezzi fra di loro e per dei toni a tinte un po' più scure del solito.

Le danze si aprono con "See You Tonight", un pezzo cantato e suonato in sordina con Billie Joe Armstrong accompagnato dalla sola chitarra elettrica non amplificata e un controcanto femminile, pezzo che può fuorviare l'ascoltatore che sicuramente si aspetta una seconda traccia dello stesso stampo o poco diversa, ma in realtà con "Fuck Time" prima e "Stop When the Red Lights Flash" poi non riuscirà a tirare il fiato almeno fino alla quinta traccia, "Wilde One", dove la batteria rallenta e le chitarre si quietano per 4 minuti e 19. Arrivati a "Makeout Party" invece, non si può fare a meno di pensare che potrebbe essere un pezzo qualsiasi fra quelli scelti per comporre un disco a nome Foxboro Hot Tubs, side project retrò della band.

Il tutto prosegue senza ostacoli fino alla fine con midtempo quali "Stray Heart" (primo singolo estratto da questo lavoro) o "Baby Eyes", passando per la potente trascinante "Lady Cobra" arrivando alla "Kill the DJ" di questo disco, e cioè l'inusuale e sensuale "Nightlife" che si discosta da tutto il materiale prodotto dal trittico californiano dagli anni '90 ad oggi. In questo pezzo infatti, oltre alla atipicità del cantato, vi è pure una seconda voce femminile che si fa spazio nel giro di chitarra con metrica rap. Questo a dimostrazione del fatto che il pezzo voleva essere qualcosa di diverso dal solito, riuscendoci.

Il disco si chiude con la prima vera ballata presente nella tracklist e cioè "Amy", dedicata all'artista scomparsa di recente, Amy Winehouse. Molto coinvolgente e dal sapore Beatlesiano, uno dei pezzi forti di questo lavoro.

Ottima chiusura per questo ¡Dos! che aggiunge qualcosa in più ad una discografia già abbastanza variegata, senza però stancare o riuscire a far storcere il naso ai fan di vecchia data della band. Anzi, l'ascolto di questo materiale potrebbe creare dipendenza, quindi attenti! Fatene buon uso.

Per quanto riguarda ¡Trè!, suo successore nonché disco che chiuderà la fantomatica trilogia di cui parlavano nella precedente recensione, c'è una novità. Pare infatti che a causa delle condizioni di salute di Billie Joe, la band abbia annullato le date rimanenti in questo 2012 e abbia posticipato quelle dei primi due mesi del 2013, quindi forse per rientrare nei costi di produzione, forse per dare un contentino ai fan che non potranno vederli a breve, l'uscita prevista per il 15 Gennaio è stata anticipata al prossimo 11 Dicembre.


Non ci resta che aspettare.

Meno dell'ultima volta, of course.



Stay tuned...

mercoledì 26 settembre 2012

Shoot the Fucker Down!

Appena due dischi nel decennio scorso non sono bastati ad attribuire ai Green Day la fama di scansafatiche, anzi, con appena due lavori sono riusciti a riempire per un intero decennio platee in tutto il mondo, a vendere milioni di dischi, a realizzare un musical per Broadway incentrato sull'ormai best seller American Idiot e ora, a distanza di tre anni dall'ultimo lavoro in studio, 21st Century Breakdown, riappaiono più in forma che mai con tre (avete letto bene) dischi in studio che verranno pubblicati a distanza di due mesi l'uno dall'altro.

 Il primo disco di cui fra poco vi parlerò è primo della trilogia, è intitolato ¡Uno! e potrete trovarlo nei negozi già dal prossimo 25 Settembre. Per il secondo disco, ¡Dos!, dovrete attente fino al 13 Novembre, invece per il terzo e conclusivo capitolo della trilogia, ¡Trè!, fino al 15 Gennaio.

Da fan quindicennale devo ammettere che aspettavo, non dico con ansia, ma quasi, il ritorno sulle scene del terzetto (+1, Jason White, che dal 1999 è il secondo chitarrista non ufficiale della band) di Berkeley. Sto ascoltando da più o meno dieci ore in semi-loop questo lavoro e la prima impressione è che il decennio a cui facevo riferimento qui sopra, si sia polverizzato nel nulla e che la band riprenda un discorso lasciato in sospeso col disco del 2000, Warning. Quello che Billie Joe & co. propongono è di fatto un Power Pop che ricorda tantissimo i lavori degli esordi, quelli che li hanno resi dei numeri uno del genere a metà anni '90, quando le masse iniziavano a stancarsi del fantomatico Seattle Sound, dalle atmosfere cupe e poetiche di quella scena, e il loro bisogno virava verso i confini della - concedetemi la licenza poetica - cazzoneria più sfrenata, caratterizzata da sferragliate in power chord e zero assoli o virtuosismi di alcun genere. Non vi dico la soddisfazione! Io personalmente mi ero stancato della formula del concept, ormai banale e ripetitiva, e sono felice della svolta/non svolta che mi fa tornare quattordicenne.

Ok ok, ad ascoltare questo lavoro pare di sentire riadattamenti di pezzi anni novanta suonati con la maturità odierna, con l'aggiunta di qualche assolo che nel '94 Billie Joe non si sarebbe mai sognato di riuscire ad eseguire, certo, e melodie spesso prevedibili... ma chissenefrega, sono i Green Day! Di certo un loro fan della prima ora o quasi non potrà che essere felice di ritrovarsi fra le mani un lavoro composto da pezzi che per la loro semplicità e la loro efficacia sarebbero potuti tranquillamente essere inseriti in Dookie, che per il loro tiro non sarebbero stati inferiori certo ad un qualsiasi brano estratto da Insomniac e che per la loro compattezza sonora non sarebbero sfigurati nella tracklist di quella figata chiamata Nimrod.

Insomma, un rock viscerale, semplice e diretto. Con atmosfere e cavalcate che solo questa band riesce a mettere in piedi. Partono in quarta con "Nuclear Family", pezzo che apre le danze e ti fa già saltare sulla sedia, per un susseguirsi di tracce potenti e dirette che non ti fanno tirare il fiato un solo momento. Eccezion fatta per il singolo di lancio, "Oh Love", che ricorda i trascorsi del passato recente e "Kill the DJ", secondo estratto del disco, dove possiamo sentire i Green Day alle prese con sonorità mai affrontate nemmeno nei side-project The Network e Foxboro Hot Tubs, i pezzi che compongono questo disco appaiono all'ascoltatore come le più oneste e spontanee incise da un sacco di tempo a questa parte. Che si siano lasciati alle spalle i loro trascorsi da poser e siano tornati a fare rock 'n' roll senza la pretesa di essere emulati stilisticamente dai loro ascoltatori? Bah, forse. Ma ripeto, chissenefrega!

Mettete nello stereo dell'auto ¡Uno!, non ve ne pentirete.

Io intanto continuo con l'ascolto ossessivo e a farmi venire la febbre come un(a) quindicenne in trepidante attesa per i prossimi due lavori.

Stay tuned!


Free. Free, everything you ever wanted. Fuck me.

In barba alle multinazionali macina-banconote, ecco che la Matador - piccola realtà discografica indipendente - per l'ennesima volta in due decenni, da alle stampe l'ultima fatica di Chan Marshall, al secolo nota come Cat Power.

Sun esce a distanza di sei anni dal bellissimo The Greatest e, stranamente, a differenza di altri artisti di fama quantomeno nazionale, quando si parla di Cat Power non si parla di qualcuno che lascia in febbrile attesa fan in crisi d'astinenza da nuovo album, piuttosto si pensa a un'artista che, nel bene o nel male, non stanca mai perché il il suo punto di forza è un genere che difficilmente viene a noia, ma del quale altrettanto difficilmente si sente la mancanza. Personalmente penso che ogni lavoro dell'artista abbia la forza di vivere di se stesso, senza bisogno di un successore o qualcosa che ne confermi la grandezza o l'inferiorità. Ogni suo lavoro è così pregno di personalità che chiedere quale sia il migliore sarebbe come chiedere a una madre a quale figlio vuole più bene. C'è però da dire che, in questo caso, ascoltando il disco, ciò che salta all'orecchio è che nonostante viviamo in una realtà dove ci si deve abituare all'involuzione di un artista, c'è chi come Chan - e qui l'esempio dei figli calza a pennello - fa crescere la propria musica disco dopo disco e qui, dopo infanzia e pubertà, arriviamo tranquillamente all'ipotetica maggiore età.

Dal 1995, infatti, il suono dell'artista è mutato fino a raggiungere una raffinatezza e una bellezza che forse solo lei come donna riesce ad essere un esempio e un paragone 'estetico' calzante. La bellissima e talentuosissima cantautrice riesce di fatto la lasciarti addosso quella sensazione di compiuto che in pochi nella discografia post 2000 riescono a fare. È passata dal suonare una chitarra come solo accompagnamento alla sua voce pacata e soave, ad arrangiamenti che si avvicinano a un pop mai banale ma, anzi, assolutamente delizioso e coinvolgente. In questo lavoro riesce persino a cimentarsi in semi-cavalcate alla Black Sabbath senza sembrare ridicola. Sfido chiunque a non assumere un'espressione soddisfatta e compiaciuta, come se stesse ascoltando una qualsiasi "Iron Man", durante l'ascolto "Silent Machine". Se ci riuscite, provate a non muovere la testa su pezzi come "3, 6, 9" e "Cherokee" o a non restare ammaliati da pezzi come "Ruin" e "Manhattan". C'è persino modo di capitolare in atmosfere anni '70, con una lunghissima (oltre i dieci minuti), psichedelica ed evocativa "Nothin' But Time" che dalla metà del pezzo in poi ospita il miglior Iggy Pop che fa capolino con il suo irresistibile e affascinantissimo timbro vocale.

Il disco finisce l'addove non ti aspetti, ed è difficile non rimanere sorpresi e divertiti durante la conclusiva "Peace and Love" che altro non è che un midtempo che sfocia quasi nell'r'n'b di oggi, quello che strizza l'occhio al rap, ma di certo senza mai risultare ripetitivo o già sentito.

Diciamocela tutta, per gli amanti del genere questo è un inatteso ritorno che, sommato al fatto che fra le mani abbiamo un gran bel disco, a mio avviso dovrebbe accompagnare molti dei vostri risvegli. Buon umore e serenità assicurati.

Se invece riusciste a svegliarvi con affianco lei... tanto meglio!


...SUCK MY COCK!

Negli anni '60/'70 ci avevano abituato bene gli Stones, gli Zeppelin ci hanno fatto innamorare, gli AC/DC esaltare e gli Aerosmith ben sperare. Gli anni '80 ci hanno regalato buoni sprazzi di creatività con i Guns N' Roses e pacchianate di dubbio valore (non me ne vogliano i fan, ma il parere è mio e me lo tengo stretto) con Bon Jovi, Europe, Mötley Crüe e Skid Row. Negli anni '90 qualche conferma c'è stata, anche quando nuove realtà alternative molto interessanti si fecero largo sfacciate nel music business, ma per ritrovare un rinnovato amore nei confronti dell'hard rock suonato alla vecchia maniera, quel vecchio e sano rock 'n' roll sporcato con blues e paillettes, bisogna però aspettare l'alba dei 2000.

Gli Stones ormai sono un gruppo di vecchietti riempistadio che fanno il loro sporco lavoro, seppur composto di revival, egregiamente, gli Zeppelin ci hanno ormai lasciati orfani della loro musica dal vivo da ormai un trentennio abbondante, gli AC/DC ci riprovano di continuo e, anche se la formula funziona, è la solita solfa e i redivivi Guns N' Roses, ormai snaturati e orfani della formazione che li ha resi delle leggende, non emozionano più. I Bon Jovi, gli Europe e i Mötley Crüe purtroppo esistono ancora e forse gli Skid Row ci daranno il dispiacere di bussare di nuovo alle porte della discografia.

Quello che oggi resta all'ascoltatore medio è un manicolo di coverband (possa Ronnie James Dio avere pietà di voi) e qualche rara eccezione in cui ci si ritrova ad ascoltare dischi di band, più o meno valide, che hanno macinato i dischi delle realtà appena citate, per poi rigurgitare canzoni che di certo non le fanno rimpiangere più di quel tanto. Gruppi come Wolfmother, i recenti Rival Sons o gli svariati progetti di Jack White aiutano il nostalgico come il metadone aiuta l'eroinomane.

Poi invece ci sono i The Darkness, band sulla quale vorrei soffermarmi in questo post, che nel 2003 riuscirono ad ammaliare mezzo globo con il loro disco d'esordio, Permission to Land e, fra alti e bassi a livello personale, a dare una conferma gradita con il successivo One Way Ticket to Hell... and Back nel 2005. Successo così grande e immediato che evidentemente diede alla testa al quintetto inglese, tanto da annunciare nel 2006, dopo appena tre anni dal loro esordio dicografico, che per problemi personali dettati da dissidi interni e una preoccupante tossicodipendenza del cantante Justin Hawkins, la band si sarebbe sciolta a tempo indeterminato.

Nel periodo che va dal 2008 al 2010 la rete, che si sa, è fonte di miriadi di informazioni e mezzo per i messaggi subliminali più disparati, aveva regalato ai fan la speranza di un ritorno di fiamma fra i membri della band, fino alla conferma dell'effettiva reunion avvenuta nel 2011, quando si apprende dal mezzo di informazione che il gruppo è effettivamente al lavoro per il suo terzo lavoro in studio. Justin (ormai disintossicato e con una tutt'altro che soddisfacente parentesi solista) and co. tornano infatti con Hot Cakes, dato alle stampe il 20 Agosto di quest'anno.

Il disco non si discosta dalla formula usata nei due predecessori, un mix di rock 'n' roll ed ironia che da sempre riesce a fare apprezzare il gruppo anche ai meno appassionati al genere.

Ad accendere la miccia di questo lavoro è il terzo singolo promozionale in ordine di tempo, "Every Inch of You", un crescendo ritmico di percussioni/chitarra/basso che sfocia in un ritornello alla loro maniera, con un testo che dire divertente è poca cosa. Si susseguono cavalcate poderose di hard rock di ottima fattura. Con "With a Woman" e "Keep Me Hangin' On" ci si ritrova immersi negli anni '70 senza ritegno, con "Living Each Day Blind" lo stampo riconoscibilissimo della band si impone su una melodia che si alterna ad assoli virtuosi a due e ad un ritornello così coinvolgente che sfido chiunque a non cantarlo a squarciagola durante l'ascolto in auto.

Già solo arrivando a "Concrete" ci si accorge di aver speso bene i propri soldi e sulle note conclusive della cinica e ruffiana "Love is Not the Answer" si fatica a non rimettere su il disco e questo, si sa, non denota altro che la riuscita del lavoro in toto.

Che i fratelli Hawkins alle sei corde ci sanno fare si sapeva, ma riuscire a regalare parti di chitarra che ricordano i migliori AC/DC senza però far mai storcere il naso, non è cosa da poco.

Curiosa e spiazzante è la cover di un pezzo più che celebre dei Radiohead, "Street Spirit (Fade Out)", dove la band si cimenta in un simil speed-metal sgraziato che riesce a far sorridere chi di solito su un pezzo come questo tutto fa tranne che rallegrarsi e, chissà, magari l'intento della band era proprio quello di rendere divertente un pezzo che di certo non aveva bisogno di reinterpretazioni per essere considerato un capolavoro. Che sia un loro modo di dargli giustizia a tuttotondo?

Ritornano così i The Darkness e non si può certo restare indifferenti a un loro lavoro. Certo non aggiungono niente al genere, ma di sicuro ne confermano la grandezza e il potenziale. E poi, fidatevi, con questo disco la band non tradisce le aspettative: se avete apprezzato i due lavori precedenti, sappiate che anche con questo Hot Cakes il divertimento è assicurato!


venerdì 14 settembre 2012

Waiting Room

Sitting outside of town,
everybody's always down
because they can't get up.

But I won't sit idly by,
I'm planning a big surprise:
I'm gonna fight
for what I want to be
and I won't make
the same mistakes,
because I know
how much time that wastes.

Function is the key
inside the waiting room.

martedì 11 settembre 2012

Bush - Alcatraz (MI), 03 Settembre 2012

Un concerto partito in diesel quello dei Bush l'altra sera all'Alcatraz di Milano. Le prevendite non rassicuranti balzano subito all'occhio appena entrati nel locale, solo seicento biglietti venduti e pochissima gente ad assistere all'ingresso della band. Quest'ultima, che evidentemente non stava vivendo bene il momento appena salita sul palco milanese, pare abbia sbattuto il muso sulla cosa e si vede. Nonostante questo, però, basta comunque il tempo di suonare due pezzi e il pubblico poco a poco prende forma e il parterre si riempie in men che non si dica.

Rossdale & co. non calcavano i palcoscenici da otto anni come minimo e, nonostante il successo avuto nell'era post grunge (Dio, già grunge come parola mi ha sempre fatto schifo...) di metà anni '90, che gli ha garantito vendite e non poca fama, non penso fossero molti quelli che, dopo lo scioglimento del 2002, si siano accorti della reunion del 2010. A me personalmente è capitato di ascoltare il loro primo singolo dopo quasi un decennio di silenzio, "The Sound of Winter", solo su uno dei nostri network nazionali, e questo non solo lasciava un po' l'amaro in bocca ai fan di vecchia data, ma faceva sorgere non pochi dubbi. Il network in questione è conosciuto per la sua programmazione esclusivamente rock (prendetela con le pinze), ma fra i pezzi scritti fino ad oggi dai Bush, a parer mio, non ce n'è uno solo che non possa essere trasmesso su un qualsiasi network fra quelli che spopolano nel nostro paese.

Che siano stati o meno questi i motivi dell'iniziale scarso riscontro di vendite, c'è da dire che nonostante due dei membri storici non ci siano più (il chitarrista co-fondatore della band Nigel Pulsford ha lasciato il gruppo per dedicarsi alla famiglia subito dopo le registrazioni del disco del 2001, Golden State, e il bassista Dave Parsons ha definitivamente lasciato il gruppo in occasione dello split del 2002), la band non ha perso lo smalto e, nonostato un inizio un po' così, dal terzo pezzo in scaletta ("The Chemical Between Us") in poi, ha regalato agli spettatori un'esibizione molto intensa e la sensazione che si ha è che, anche se c'è un disco da promuovere in un paese che non se li è filati fino ad oggi da quasi un decennio, di base c'è lo sforzo da parte loro di celebrare il loro ritorno con una scaletta che ha ben poco di nuovo e promozionale e che fa tuffare tutti quanti in un amarcord indietro di quindici anni abbondanti.

Come già detto, nonostante la "Machinehead" d'apertura, è dal terzo pezzo in poi che la band e il pubblico riescono ad entrare veramente in sintonia e, come un treno, la band tirerà dritto verso classici che un paio d'anni fa in pochi avrebbero mai sperato di poter sentire dal vivo. Il delirio vero e proprio ha inizio dopo appena cinque pezzi e su "Everithing Zen" il pit esplode. La scaletta è un pout pourri più che equilibrato di vecchi e nuovi pezzi che fa tirare il fiato alla band solo dopo un'ora e venti abbondante.

Rossdale non è stato fermo un attimo, però, lasciatemelo dire, secondo me non è normale che pisci sudore in quella maniera. Le prime file potevano tranquillamente insaponarsi, tanto lui li avrebbe lavati tutti. Evidentemente l'entourage è cosciente di questa cosa e, a detta dell'amica Elena (sua la foto presente in questo post), sarà per questo motivo che la sua pedaliera era ricoperta interamente dal cellophane.

Detto questo, c'è da considerare il fatto che, a differenza di molti colleghi celebri, la band, superato l'imbarazzo del primo quarto d'ora, mantiene un buon contatto con il pubblico dall'inizio alla fine, al punto che (si lo so, lo sta facendo a tutti i concerti) in "The Afterline" il bellissimo e sudatissimo cantante scende fra il pubblico e tra moine, pose, finti corteggiamenti e corse in mezzo alla platea, regala uno spettacolo che sinceramente non mi era mai capitato di vedere. La sua corsa lo ha portato a un punto dove è riuscito persino a commuovermi, quando sulle gradinate del locale, in uno spazio apposito, incrocia un signore sulla sessantina costretto su una sedia a rotelle che io e la mia ragazza abbiamo incontrato ad almento altri due concerti milanesi (Mudhoney e Soundgarden), e lo bacia affettuosamente lasciandolo lì, felice ed incredulo come un bambino che scarta il regalo più bello sotto l'albero a Natale.

Il concerto finisce con un encore composto da quattro pezzi, due cover riuscitissime ("Breathe" dei Pink Floyd e "Come Together" dei Beatles), una "Glycerine" alternativa che esplode nell'ultimo ritornello e la conclusica e quasi auto-celebrativa "Comedown".

Dopo due ore e tre quarti e i dovuti ringraziamenti, la band abbandona il palco lasciando addosso al pubblico una sensazione di 'compiuto' che poche volte mi è capitato di percepire ad un concerto.

Un ulteriore punto a favore della band inglese è che l'esercizio di stile c'è stato, non poteva non esserci alla loro età, ma è stato decisamente marginale. Non sarà certo questo a farmi ricordare con poco piacere questa esibizione, anzi.


P.S. Gavin, bello mio... fatti curare quella sudorazione!


SETLIST:
- Machinehead
- All My Life
- The Chemicals Between Us
- The Sound of Winter
- Everything Zen
- Swallowed
- The Heart of the Matter
- Prizefighter
- Stand Up
- Greedy Fly
- Alien
- The Afterlife
- Little Things

ENCORE:
- Breathe (Pink Floyd cover)
- Come Together (The Beatles cover)
- Glycerine
- Comedown

giovedì 19 luglio 2012

Stand Inside My Love

Inizierei questa recensione con una piccola, piccolissima premessa: i Siamese Dream, i Gish e i Mellon Collie and the Infinite Sadness in versione 2.0 li abbiamo finiti e no, non ripassate, che tanto sono fuori catalogo.

Detto questo inizierei a parlarvi della nuova fatica delle Zucche più amate anche dai bambini più schizzinosi. Il redivivo progetto di uno strano ma altrettanto eclettico Billy Corgan. In molti hanno criticato la sua scelta di riformare, non per scelta sua, una band senza i 'volti' che l'hanno resa celebre, dimenticandosi di un piccolo particolare e cioè che i momenti più prolifici della band, quelli dei '90 per intenderci, le facce che ora mancano all'appello erano comunque delle comparsate, in quanto, a parte qualche significativa eccezione, il materiale di allora era tutta farina del sacco del pelato più famoso del mondo dopo Lex Luthor.

In pochi ci credevano, in molti speravano si desse pace e mettesse a dormire definitivamente il marchio lasciando ai fan il diritto di sognare i bei tempi che furono, qualcuno invece, dopo il passo falso di Zeitgeist del 2007, primo disco in studio dopo sette anni di silenzio, non volevano crederci. Eppure eccoci qui, sono quasi passati altri cinque anni e gli Smashing Pumpkins danno alle stampe un altro disco. Dopo la piccola follia messa in atto con Teargarden by Kaleidyscope (progetto ambizioso destinato quasi totalmente alla divulgazione in rete) ecco che, senza preavviso o singoli in versione 'aperitivo', nei negozi compare la copertina a tinte blu di Oceania, la nona fatica di Corgan & co.

È inutile nasconderlo, anche io ero scettico riguardo alle produzioni musicali del pelatino, anche io sono fra quelli che ascoltando il disco del 2007 s'è chiesto "Perché?" e non vi nascondo che, riguardo quest'ultimo lavoro, son rimasto sulla difensiva fino all'ultimo, salvo poi ricredermi sulle note finali di "Wildflower", il pezzo che va chiudere questo lavoro, quando, inaspettatamente, mi è venuta voglia di rimetterlo su. Avvenimento sempre più raro negli ultimi tempi.

In sintesi (ma anche no) cosa aspettarsi da una band che negli anni '90 ha dettato le leggi sonore di un certo tipo di rock e ha bagnato il naso a parecchi 'colleghi' con i suoi testi e le delicate tematiche affrontatee? Niente. Non fatelo mai questo errore. Correreste il rischio di rimaner delusi da tutto, non solo dalla musica. Le aspettative ti fottono, lo dico sempre. BASTA! Basta. Prendete le cose come vengono e di sicuro riuscirete ad apprezzarle di più. Fatto tesoro di questo consiglio, sarete d'accordo con me che questo disco è quasi nella sua totalità un ottimo lavoro, ben lontano dal più facile e bieco esercizio di stile, ben suonato, ben strutturato, con idee brillanti e arrangiamenti più che degni del passato glorioso delle zucche. Se ci si dimentica delle aspettative, ci si dimentica delle tinte di nero, della negatività e della frustrazione che pervadono i vecchi lavori e che ce li hanno fatti amare, per accorgersi di come anche queste nuove tinte possano piacere, e anche tanto, nonostante il peso del passato che grava sulle spalle dell'autore.

Dopo la defezione del batterista Jimmy Chamberlin nel 2009, ultimo membro della band storica dopo la defezione tra il '99 e il '00 della bassista D'Arcy Wretzky e del chitarrista James Iha, in molti, visti i risultati ottenuti dopo la rinascita dell gruppo, davano per spacciato il marchio, ma soprattutto davano per esaurita la lucidità mentale dello stesso Corgan. Invece è su questo che sbatterete il muso, perché, fin dal primo pezzo, se siete degli amanti della buona musica e non solo degli Smashing Pumpkins, non potranno non piacervi le note introduttive di un pezzo come "Quasar" (l'unico pezzo che ricorda molto i primi lavori in studio). Se invece vi state chiedendo dove va a finire l'emotività, vi invito a perdervi nella splendida "Violet Rays" e nella delicata "Pinwheels". C'è anche di che esaltarsi o da metter fine a quel tipo di ascolto distratto, quello che spesso si affronta nell'ascoltare la musica rock e non degli ultimi dieci anni, e sorprendersi piacevolmente con un pezzo come la psichedelica e poliedrica "Oceania", brano che da il titolo all'opera, fino a raggiungere picchi d'insolita euforia come quelli di "The Chimera" e via dicendo. Di certo qui le idee non mancano e si sentono. Tutte forti e chiare.

Insomma, chi dava per spacciato il musicista di Chicago e la sua band, chi pensava che il tutto fosse un'operazione per pagarsi gli spicofarmaci o la droga alle amiche, si sbagliava. La Zucca è tornata, non dico risorta come la Fenice, ma di sicuro con più punti a favore che a sfavore. Le tinte dark lasciano spazio a un certo senso di luminosità, i testi non sfiorano minimamente le tematiche adolescenziali/pessimistiche di un tempo e la furia punk lascia spazio alla creatività progressive e, in questo caso specifico, ai dei mai invandenti sintetizzatori ad accompagnare le corpose e riconoscibilissime chitarre. E, vi dirò... tutto sommato ci voleva.

Non sarano gli Smashing Pumpkins di una volta, ma questo vuol dire che non ci si possa più aspettare un buon disco da parte loro?

Brutto affare il pregiudizio.
Provare per credere.

giovedì 12 luglio 2012

AFTERHOURS - Villa Arconati Festival (MI), 30 Giugno 2012

"Lasciate che ve lo dica: siete il miglior pubblico milanese da anni a questa parte... e non lo dico tanto per dire. Grazie."

Esordisce così Manuel Agnelli, appena rientrato sul palco con i 'suoi' per il primo encore, e forse forse gli si può dar ragione. Io ho poca esperienza live con gli Afterhours, ho solo quattro loro concerti all'attivo, ma una cosa è certa: se - in generale - il pubblico della band milanese ha un difetto, è quello che ad ogni data - da sempre - ha confuso quello che a conti fatti è un concerto con il 'disco a richiesta', manco fossero presenti a una diretta radiofonica di uno qualsiasi dei network nazionali più importanti e gettonati del nostro paese. Ai più son ben note le storiche liti con le prime file, quando (soprattutto ai tempi del doppio disco Ballate per Piccole Iene/Ballads for Little Hyenas) le urla che intonavano insistenti ad ogni data "I-TA-LIA-NO! I-TA-LI-A-NO! I-TA-LI-A-NO!" mandavano su tutte le furie il front-man. Ancor più abituali e insistenti, invece, sono le richieste assillanti da parte degli spettatori di pezzi storici quali "Strategie" o "Dea" che, a lungo andare, diventavano frustranti e fuori luogo. A testimonianza di questo, ricordo l'ultimo loro concerto visto, risalente all’anno scorso, dove, sempre Agnelli, dal palco si rivolge a uno spettatore di questi e, stranamente molto più gentilmente e pazientemente del solito, dice "Cosa c'è? No. No, DEA non la facciamo stasera, vieni la prossima volta che te la facciamo." e poco meno di un'ora dopo si prende gioco dello stesso dicendo "Facciamo... adesso facciamo un pezzo... facciamo DEA. Non ci credi? Eh, fai bene a non crederci."

Tutto questo per dire cosa? Semplice. Questo pubblico è stato davvero uno dei migliori visti anche dal sottoscritto. La cosa che mi ha sorpreso di più è che la scaletta è stata per lo più composta da brani recenti, solo un pezzo da Germi e un paio da Non è Per Sempre e Hai Paura del Buio?, il resto attingeva da Quello Che Non C’è in poi, e il tutto con una reazione inaspettata da parte del parterre, il quale ha reagito straordinariamente, cantando persino pezzi tratti dal loro ultimo e ostico lavoro: Padania.

Il primo punto a favore del concerto è stato quello riguardo la location. Il Villa Arconti Festival a Bollate, infatti, offre allo spettatore parcheggio e, pur essendo ai margini nell’interland milanese, possibilità di sentire i gruppi a un volume decente in quanto il tutto è circondato da campi e desolazione. Persino gli stormi di zanzare hanno dato tregua agli spettatori. Mai viste tante e tutte assieme in una volta e, soprattutto, mai visto insetti più indifferenti e pacifici! Incredibile.

L’esibizione è stata maestosa, nonostante l’esclusione di vari pezzi ‘storici’. La band ha mantenuto un tiro e un coinvolgimento quasi senza pari. L’apporto di Xavier Iriondo, poi, è sempre più cruciale. Vale da solo - senza esagerare - il prezzo del biglietto. Un personaggio vero e un musicista che sfiora la perfezione robotica pur mantenendo una furia punk senza eguali, cosa sempre più rara nel nostro paese.

Sempre riguardo l’esibizione, ero molto curioso di sentire i pezzi nuovi dal vivo e, con sommo piacere, mi ritrovo sorpreso nel vedere e ascoltare come la band sia riuscita a mantenere la forza dei brani più ostici nonostante le aspettative. Pezzi come "Ci Sarà una Bella Luce" e "Costruire Per Distruggere" acquisiscono un valore aggiunto in chiave live, quasi toccando picchi che su disco si fa molta fatica ad assimilare.

Il gruppo è molto coeso e cavalca una scaletta ‘promozionale’ che, nonostante l’esclusione di alcune perle del loro repertorio, strizza comunque l’occhio agli anthem necessari e lo fa in maniera impeccabile. Il tour approdato all’Arena Civica al quale ho potuto assistere l’anno scorso, ha dato il là a una formazione che oggi, a conti fatti, è forse la migliore che abbia mai suonato a nome Afterhours dagli esordi ad oggi. Si sente, ma soprattutto si vede. Non ho mai visto la band dell’istrionico Manuel Agnelli più coinvolta e divertita di così su un palco, ne dal vivo ne nei video di repertorio. Nessuno di loro è riuscito a mantenere la propria posizione per tutto il concerto, cosa successa in passato. Vuoi per noia, vuoi per la frustrazione causata dal pubblico che vi ho descritto nelle prime righe di questo posto.

Durante l’esibizione picchi di emotività e furia rock’n’roll l’hanno fatta da padrone, al punto da regalare allo spettatore la sensazione d’aver assistito a una rinascita storica. L’umore, la sintonia e la voglia di suonare erano ad un livello tale che pareva di assistere all’esibizione di una band di esordienti. Nemmeno io, che li ascolto e li seguo da anni, riuscivo a credere ai miei occhi.

In sintesi: se capitano dalle vostre parti, non perdete l’occasione di andarli a sentire. Ne vale e ne varrà sempre la pena. Anche se non suoneranno mai a Sansiro.

Fidatevi.

SETLIST
- Metamorfosi
- Terra di Nessuno
- La Verità che Ricordavo
- Male di Miele
- Costruire Per Distruggere
- Spreca Una Vita
- Padania
- Ci Sarà una Bella Luce
- Ballata Per la Mia Piccola Iena
- È Solo Febbre
- Bungee Jumping
- Il Paese è Reale
- Sulle Labbra
- Nostro Anche Se Ci Fa Male
- Io So Chi Sono
- La Terra Promessa Si Scioglie di Colpo

ENCORE
- Tutto Fa un Po' Male
- La Vedova Bianca
- Improvvisazione (Jam Session)
- Bye Bye Bombay

ENCORE, 2
- Pelle
- Quello Che Non C'è
- Posso Avere il Tuo Deserto?

ENCORE, 3
- Voglio la Pelle Splendida


martedì 26 giugno 2012

Billy Shakespeare era un EMO.



"I thought that your love was a matter of fact,
but I lost my pride when I realized that
the smack in my bag and my baseball bat
was all you were after."

lunedì 11 giugno 2012

SOUNDGARDEN - Arena Concerti Fiera di RHO (MI), 4 Giugno 2012


Capire come chiamare questo evento è dura. Sulla carta c'è scritto SOUNDGARDEN, ma potevano tranquillamente chiamarlo "Reunion Festival" o "Never Say Never", visto e considerato il cast che andava a comporre il resto del cartellone dell'evento tenutosi il 4 Giugno scorso all'Arena Concerti Fiera di Rho. I presenti, infatti, hanno assistito alle esibizioni di almeno tre band riunitesi dopo più di una decade di inattività e che in pochi, pochissimi si sarebbero anche solo potuti immaginare di riuscire a rivedere dal vivo tanto facilmente. Figuriamoci la stessa sera sullo stesso palco! Fatta eccezione per i Triggerfinger, che essendo arrivato tardi non sono riuscito a sentire, e gli - a parer mio - inutilissimi Gaslight Anthem, gli spettatori son stati testimoni di un lungo e intensissimo amarcord anni '90, una full immersion in ricordi ed emozioni seppellite per anni. Ad assistere all'esibizione di Afghan Whigs, Refused e Soundgarden c'è un pubblico misto, ma la vecchia guardia è quasi tutta lì e si fa fatica a non distinguerla dal resto degli spettatori. Magliette scolorite dal tempo, teste bianche e signorotti di quarant'anni felici come infanti ed esaltati fin dal primo pezzo della band di Cornell& co. Ad un primo impatto, quello che colpisce lo spettatore medio (me su tutti), è che pare quasi che le band di cui sopra non abbiano mai smesso di suonare assieme in tutti questi anni ed è difficile credere che non sia così perché le tre esibizioni lasciano tutto, fuorché l'amaro in bocca. La band di Greg Dulli, in gran rispolvero, propone classici da pelle d'oca, una vera e propria scaletta da greatest hits; gli svedesi capitanati da Dennis Lyxzén, invece, fanno perdere definitivamente le articolazioni alle prime file con un set così devastante da mandare al tappeto un qualsiasi frequentatore abitudinario della scena hardcore odierna. Ottimi presupposti e un ottimo antipasto per quella che poi sarebbe stata la grande abbuffata finale.

Alle nove e mezza quasi spaccate le luci finalmente si spengono e quello che si sente in sottofondo è l'intro del primo pezzo in scaletta. "Searching with My Good Eye Closed" apre le danze a quella che sarà una scaletta praticamente perfetta. Ci siamo, l'attesa è durata fin troppo... salgono sul palco i Soundgarden! L'emozione è tanta, le aspettative purtroppo no. Visti i trascorsi concertistici recenti del cantante, la paura è quella di assistere al concerto di quattro talentuosissimi musicisti pronti ad accompagnare (anche se, parlando nello specifico di questa band, il verbo "accompagnare" è una bestemmia) una voce non più all'altezza dei tempi che furono. Certi pezzi proposti erano gatte da pelare anche per il Cornell che le ha incise negli anni '90, però l'uomo dagli occhi di ghiaccio riesce a sorprendere tutti e, grazie anche a qualche aiutino tecnologico che comunque non gli fa perdere la dignità, riesce a regalare un'esibizione coi fiocchi per quasi tutta la durata dell'esibizione. Ho visto gente piangere fin dal secondo pezzo in scaletta, "Spoonman", e gli stessi non disdegnare l'insipida "Live to Rise", ultima fatica incisa per la colonna sonora del film The Avenger e che presto, a detta del cantante, farà da apripista a un nuovo lavoro in studio del quartetto di Seattle.

Come già detto, la scaletta (che troverete alla fine della recensione) regalerà non poche soddisfazioni a chi è riuscito ad accaparrarsi il costoso biglietto. Fatta infatti eccezione per il primo disco, inspiegabilmente lasciato in disparte, la band estrapolerà pezzi da tutta la discografia, emozionando e, nonostante le aspettative fossero bassissime, soddisfacendo tutti fino al midollo con una gran prestazione, sia strumentale che vocale.

Io per primo, mai avrei creduto di poter assistere a un loro concerto senza lamentarmi di nulla, ma, a conti fatti, non c'era nulla di cui lamentarsi. Tralasciando il parere sulle prime due band esibitesi, la serata è stata impeccabile. Sia per quanto riguarda la musica proposta dalle band di supporto e gli headliner della serata, sia per quanto riguarda l'organizzazione dell'evento che, a differenza dell'anno scorso in occasione della prima edizione del Rock in Idro sempre a Rho, ha reso il tutto molto più vivibile regalando a chi era lì fin dal primo pomeriggio la possibilità di rifocillarsi all'ombra e di poter comunque ascoltare le esibizioni anche nel punto più remoto del pit perché, udite udite, è tornato il volume! Speriamo solo non sia un'eccezione dopo anni di quasi silenzio e speriamo che non sia l'ultima possibilità per poter assistere ad una serie di concerti così nel nostro bel Paese di... va be', ci siamo capiti.

SETLIST:
- Searching with My Good Eye Closed
- Spoonman
- Gun
- Hounted Down
- Live to Rise
- Loud Love
- Ugly Truth
- Fell on Black Days
- Blow Up the Outside World
- My Wave
- The Day I Tried to Live
- Outshined
- Rusty Cage
- Burden in my Hand
- Superunknown
- Black Hole Sun
- 4th of July

ENCORE:
- Jesus Christ Pose
- Slaves & Bulldozers




[Grazie mille a Elena per la gentile concessione della foto!]

giovedì 24 maggio 2012

MUDHONEY - Bloom di Mezzago (MB), 21 Maggio 2012


Tutto sarei arrivato a pensare, tranne che i Mudhoney fossero una di quelle band alimentate a gasolio, un "motore a diesel" associato al modo di fare di una personalità come quella di una band che calca i palchi di tutto il mondo da quasi trent'anni. Chi ne sa un po' di motori sa di che parlo, per gli altri invece: le vecchie macchine a gasolio necessitavano di più tempo per poter essere usate dopo la messa in moto, più delle allora più comuni e diffuse macchine a benzina.

Ripeto, mi risultava difficile crederlo lì in mezzo al pubblico, ma per una buona parte della serata il mio pensiero è stato "si, ok... ma adesso?"

L'esibizione al Bloom di Mezzago (MB) purtroppo non inizia benissimo, a partire dalla fortunatamente anonima band che apre le danze, un duo francese chitarra e voce dove la sessione ritmica è affidata ad una drum machine e a campionamenti vari ed osceni. Dico fortunatamente perché spenderei ogni minuto che mi resta da vivere per parlarne male. In molti si son chiesti cosa c'entrassero col quartetto di Seattle e in molti hanno lasciato il locale a fine serata senza avere ricevuto una risposta soddisfacente a questa loro domanda. Dopo quaranta minuti di supplizio e i vari ed eventuali "Vattene! Andatevene!", il pubblico ha inizato a urlare cose del tipo "Datti al porno che almeno puoi urlare per un cazzo!" che è tutto dire.

Dopo quaranta lunghissimi minuti di supplizio, appunto, tra moine, miagolii disgustosi, versi dissonanti e urletti francesi, ecco che alle undici meno dieci salgono sul palco Mark Arm, Steve Turner and co. ad aprire le danze con una poco incisiva Poisoned Water Poisons the Mind. Nonostante questa premessa, la calca si fa importante e la temperatura sale. La prima impressione è quella che la band sia scazzata... sarà che forse si son messi ad ascoltare il duo che li ha preceduti?! Bah! Fatto sta che con il secondo pezzo, un classicone imponente come Into the Drink, il pit prende vita e la calca diventa infernale. Inizio a intravedere le persone mentre saltano di gioia e con mia somma ed estrema sorpresa scorgo con non poco piacere delle figure ambigue che mi lasciano di stucco. Signorotti sulla cinquantina con capelli bianchi ed occhiali che potrebbero tranquillamente esser genitori di ragazzi della mia età che, felici e contenti, saltano e si dimenano frenetici e contentissimi in mezzo al pogo. Uno spettacolo quasi mai visto dal sottoscritto che mi lascia una bella sensazione addosso.

Pezzo dopo pezzo, si capisce che la serata sarà un grandioso revival di pezzi che hanno fatto la storia passata e presente del quartetto, setlist che di sicuro si lascerà ricordare con piacere dal pubblico pagante. L'impressione però, nella prima mezz'ora, è che la band si stia annoiando davvero e che non era solo un'impressione. Pur avendo davanti un pubblico che sta reagendo più che bene ai pezzi proposti fino a quel momento, soprattutto - ovviamente - ai classici, i ragazzi sul palco quasi sbadigliano fra una canzone e l'altra e gli unici sorrisi fatti sono quelli scambiati fra di loro tra la fine di un pezzo e l'inizio di un altro. Andando avanti si capirà il perché. A partire dai problemi col basso fin dal primo pezzo, arrivando all'equalizzazione degli strumenti e della voce nel loro insieme, il Bloom non è riuscito a dare buoni risultati. Fin dalle prime battute, infatti, dopo esser stato messo alla prova con il sound grezzo di una band che fa del proprio impatto sonoro la sua forza, il locale non riesce a soddisfare le aspettative ne di chi è lì a suonare e, per certi versi, nè di chi è lì ad ascoltarli.

Nella seconda metà dell'esibizione le cose migliorano, infatti da In 'N' Out of Grace, nono pezzo in scaletta, la voce risulterà più nitida e potente e le chitarre verranno finalmente fuori allo scoperto regalando soddisfazioni sonore di rilevantissima importanza con quel che resta di una scaletta memorabile. Forse al mixer sono arrivati a una soluzione stabile, e - forse - per questo motivo la band, oserei dire miracolosamente, prenderà vita e inizierà a regalare grasse soddisfazioni anche a livello di interazione col pubblico. Arm pare resuscitato e Turner inizia a muoversi come un ossesso con la sua chitarra. Anche il pit sotto il palco inizia a diventa invivibile e la gente inizia magicamente a surfare su questo piccolla pozzanghera di mani.

Tales of Terror, un pezzo recente tratto dal loro ultimo disco in studio del 2008, va a chiudere la prima parte dell'esibizione, per poi riaprire le danze con l'encore quasi psichedelico di Mudride. La scaletta della serata va ad esaurisri con due cover che ormai sono pezzi portanti nelle loro esibizioni, quali la potentissima Hate the Police dei Dicks e la sempreverde Fix Me dei Black Flag.

Ripensandoci ora, il momento più esilarante della serata è legato alla cosa del surfare di cui vi parlavo qualche riga più in su, infatti mi sono accorto che le persone in estasi trasportate dalle mani di chi era sotto il palco, diventavano automaticamente un bersaglio da centrare a suon di sputi. Non so se il rito fosse comune e/o propiziatorio, ma so che si è ripetuto più volte.

Tornando in fine all'operato dei quattro ragazzotti/padri del Seattle Sound, fatta eccezione di un pezzo storico come Suck You Dry, che è stato misteriosamente escluso dalla setlist, la band riesce a regalare un'esibizione strabordante di ricordi, e quasi tutti i più vecchi e famosi anthem della loro storia, ad un pubblico che potrà sicuramente tornare a casa più che soddisfatto e contento.

Poche band 'coetanee' dei Mudhoney riuscirebbero a fare lo stesso.



SETLIST:
- Poisoned Water Poisons the Mind
- Into The Drink
- You Got It
- Inside Job
- This Gift
- Fearless Doctor Killers
- Hard-On for War
- When Tomorrow Hits
- In 'N' Out of Grace
- Judgement, Rage, Retribution and Thyme
- Sweet Young Thing (Ain't Sweet No More)
- Let It Slide
- Good Enough
- Touch Me I'm Sick
- I'm Now
- The Lucky Ones
- Chardonnay
- The Open Mind
- Widow of Nain
20. Tales of Terror

ENCORE:
- Mudride
- Here Comes Sickness
- Hate the Police (Dicks cover)
- Fix Me (Black Flag cover)

 
[Grazie mille all'impavida Elena Di Vincenzo per la foto concessa.]