venerdì 23 dicembre 2011

Spinning around a Ten... in 2011

Eccovi la mia personalissima lista e, badate, non classifica, dei dieci dischi che ho avuto il piacere di ascoltare più è più volte quest'anno, senza che questi siano rusciti a venirmi a noia. Li ho ascoltati al punto che loro hanno smesso di girare e ho iniziato a farlo io attorno a loro. Ascolti a rotazione, appunto. Le classifiche ho iniziato ad odiarle da un bel pezzo. Quando si parla di musica (ma non  solo) cosa o ti piace o non ti piace, non c'è graduatoria che tenga!

Questi dischi mi sono piaciuti. E basta.



I Marta Sui Tubi con il loro Carne Con Gli Occhi riescono a confezionare uno dei dischi italiani più interessanti dell'anno. Una garanzia nel panorama musicale indipendente del nostro paese. Testi come sempre molto impegnati, poetici e geniali interpretati da un Giovanni Gulino campione mondiale di scioglilingua. Roba da far impallidire qualsiasi rapper, e con una padronanza della melodia che lascia di stucco. Il resto della band non è da meno e riesce a confezionare un disco molto semplice di primo acchito, che però all'orecchio attento dell'ascoltatore risulterà suonare in maniera impeccabile e con molto, molto talento da parte dei musicisti che pur essendo in tre, fanno il lavoro di mille. [PROVARE PER CREDERE]

Che i Foo Fighters fossero una macchina da guerra in ambito rock lo si sapeva già, ma, nonostante il loro successo planetario, i loro milioni di dischi venduti, i loro numerosi successi commerciali, in pochi si sarebbero immaginati un lavoro del genere. Completamente registrato in analogico su bobina, senza l'aiuto di computer o apparecchi digitali nel garage di Dave Grohl, Wasting Light, oltre ad essere un lavoro molto ambizioso che si avvicina tantissimo all'essenza di un genere che in molti danno per morto da decenni, non fa assolutamente rimpiangere i capitoli precedenti della band. [RIUSCITISSIMO] 

Devo ammetterlo, il mio primo parere sull'ultima fatica dei Verdena, WOW, non era proprio lusinghiero. "Troppo prolisso, troppi riempitivi, troppa carne sul fuoco"... ma, sapete, si può cambiare idea. E io l'ho cambiata! Questo disco è si troppo lungo per i miei gusti, ma assolutamente ben fatto. Un doppio CD/LP molto ambizioso per la band bergamasca, ma che riassume tutta la loro essenza pop rock con alcuni brani molto delicati e intimisti e altri decisamente più hard con una batteria che non ti molla un attimo e linee di basso assassine. Devo ammettere di aver cambiato idea sul lavoro nel momento in cui sono riuscito ad ascoltare il tutto su vinile, tanto da pensare che sia stato concepito e prodotto appositamente per questo tipo di supporto. Il suono guadagna parecchio rispetto alla versione su CD. [RIVALUTATI]

I Social Distortion per me sono 'LA' certezza. Mike Ness e soci son sempre stati famosi per i loro tempi biblici in materia di pubblicazioni, ma al tempo stesso sai benissimo che fra le mani non puoi non avere altro che un disco che non ti pentirai mai di aver comprato. Hard Times and Nursery Rhymes colpisce nel segno, amore fin dal primo ascolto! Un mix di punk, rock 'n' roll e blues che si fa ascoltare con estremo piacere e con nessun motivo per skippare una canzone in favore ad un'alta. Si ascolta tutto d'un fiato. E con gli occhiali da sole, ovvio! Piccole conferme. [NECESSARIO]

Quando pensi che il cantautorato italiano sia ormai morto, ecco che arrivano "I" Paolo Benvegnù che con il loro ultimo disco ti prendono per mano e ti portano nel magico mondo di Hermann. Nonostante ai più siano sconosciuti, quella di cui stiamo parlando è una delle migliori realtà musicali al quale il nostro paese abbia dato i natali. Testi magnifici, melodie che ti si piantano in testa come se niente fosse e una voce, quella di Paolo, che è di un bello che commuove. Peccato sia conosciuto da pochi, che le radio lo snobbino e che il nostro sia un paese dove se non sei il Vasco 'cliché' Rossi di turno non sei nessuno. [IMPRESCINDIBILE]

Senza John Frusciante li davano per spacciati, ma con I'm With You i Red Hot Chili Peppers son tornati alla ribalta con un disco molto atteso che riporta un po' di curiosità  all'ascoltatore che dopo gli ultimi due lavori li aveva un po' abbandonati per concedersi ad altri lidi musicali. Siamo di fronte a un buon disco pop rock con molte di quelle sfumature funk che son state per anni il loro marchio di fabbrica, quello che te li faceva riconoscere subito, fin dai primi secondi d'ascolto, e con un chitarrista nuovo, Josh Klinghoffer, che porta una ventata d'aria fresca nel repertorio musicale dei peperoncini. Non il loro miglior lavoro, ma di sicuro il più ispirato dopo Californication del 1999. [CHI NON MUORE SI RI-SENTE]

Con  gli Incubus avevo chiuso da parecchio tempo per causa di forza maggiore, ma con la loro ultima fatica in studio, If Not Now, When? son tornati a far breccia nel mio cuore. Un disco molto pacato quello della band di Brandon Boyd che ti fa pensare al repentino cambio di direzione musicale. Fin  dal primo pezzo, la title-track, si capisce che i tempi in cui facevano del crossover il loro marchio di fabbrica son finiti. Persino Chris Kilmore è passato dall'essere il DJ a l'essere il polistrumentista della band. Undici tracce di buon pop rock suonato in maniera impeccablie, come solo i cinque californiani sanno fare. [RITORNO DI FIAMMA]

Dopo ben tre scioglimenti e altrettante reunion, ecco riapparire di nuovo la band che ha tra i fondatori l'inventore del festival più fico dell'universo: il Lollapalooza. Tornano i Jane's Addiction signori, e lo fanno con un disco, The Great Escape Artist. Undici tracce che fanno tutto tranne che ricordarti il tempo che fu e cosa son stati i quattro musicisti di L.A. sul  finire degli anni '80. Niente funk,  niente violenza e  niente surf.  A parte la copertina del disco, al nome della band siamo di fronte a un disco che  con il sound che ha reso storici i nomi di Perry Farrell, Dave Navarro e Stephen Perkins non c'entra nulla, ma che comunque riesce a piacere perché, nonostante le premesse, questi tre sanno ancora fare buona musica. [PRESCINDIBILI, MA CON LE PALLE]

Che gli Oasis mi siano sempre stati sulle balle è un fatto noto, ma che tra i due fratelli Gallagher io abbia comunque sempre amato quello buono non c'è dubbio alcuno. Quando ho saputo del progetto Noel Gallagher's High Flying Birds ho fatto i salti di gioia. Ho sempre sognato un disco intero scritto e cantato da Noel, la vera anima compositiva della band di Manchester. Appena uscito nei negozi, mi son fiondato a comprare questo lavoro e fin dal primo ascolto ho capito che finalmente si iniziava a ragionare. Non è un disco semplice, non mi ha fatto impazzire fin da subito, ma ha avuto la capacità che solo i migliori lavori possono avere: è cresciuto di ascolto in ascolto. [LA SPERANZA E' SEMPRE L'ULTIMA A MORIRE]

Quest'anno è stato anche l'anno delle scoperte tardive e, in questo caso, il gruppo che esiste da almeno un decennio ma del quale scopro l'esistenza solo ora, è quello dei The Black Keys. Con un singolo  passato in ogni radio come Lonely Boy, sarebbe stato difficile non accorgersi di loro questa volta... e infatti è stato proprio così che ci ho sbattuto contro il muso. El Camino è un disco inaspettato e travolgente per quanto mi riguarda e, se posso, vi consigliere di comprarlo in formato LP e di seguire il consiglio riportato sul bollino adesivo in copertina. [PLAY LOUD!]

lunedì 12 dicembre 2011

C'è chi è nato per star zitto, c'è chi è nato per subire.

Agli Zen Circus ci arrivi, se ci arrivi, più o meno per tre motivi:

- sei Pisano e li segui dagli albori, quando suonavano alla festa delle medie e ti vanti di conoscere tutti i loro testi in iglese a memoria;
- sei un fanatico o comunque informato quando si parla di movimento indie italiano e quindi, per un motivo o per un altro, ci hai sbattuto il muso per forza di cose;
- ti sei imbattuto poco tempo fa nel loro precedente CD nel tuo negozio di fiducia e ti ha incuriosito il titolo tanto da non resistere e comprarlo.

In ogni caso non ci arrivi grazie ai canali mediatici, non se li caga nessuno. Ma se ci arrivi... be', se ci arrivi ne rimani folgorato. La band ha un sound molto asciutto e basico e dei testi che solo un sordo-scemo non amerebbe. Cinici e carichi di ironia, ogni canzone è un'aspra critica nei confronti della società ottusa, borghese, perbenista e cattolica che contraddistingue il nostro paese. Ecco, questo era il loro disco precedente, Andate Tutti Affanculo, e fin qui ci siamo. Ora invece siamo di fronte ad un nuovo lavoro in studio, il loro settimo disco, il secondo interamente scritto, cantato e interpretato in italiano.

Uscito l'ottobre scorso, Nati Per Subire non si discosta dal precedente lavoro più di quel tanto; nessun cambiamento radicale, anzi, se di radici dobbiam parlare, facciamolo dicendo tranquillamente che questo è il proseguimento naturale del precedente lavoro in studio: un modo di suonare molto basico (ok, ho detto anche asciutto prima), sempre cinici e con canzoni cariche di ironia e piene di aspre critiche nei confronti della società ottusa, borghese, perbenista e cattolica che ci circonda. Niente di nuovo sotto il sole, ma non per questo il disco non ha spessore e non riesce a convincere, anzi, lo fa... lo fa eccome. L'unica differenza, se proprio vogliamo dirlo, è che ci si accorge che i ragazzi son stati 'notati' dalle persone giuste, e con persone giuste mi riferisco agli omini del mixer che hanno arricchito (non di molto) la produzione che, rispetto al precedente, si fa un po' cicciotta grazie agli svariati contributi artistici di (in ordine, cito da Wikipedia) Ministri, Enrico Gabrielli, Giorgio Canali, Alessandro Fiori, Nicola Manzan e Il Pan del Diavolo.

Insomma, un salto di qualità anche se proprio proprio salto non è.... diciamo pure che si stan facendo una bella passeggiata seguendo il naturale corso delle cose. E che cose!

Ascoltateli e, perché no, vergognatevi un pochino per non averlo fatto prima.
Solo un po'.

sabato 10 dicembre 2011

L'oro sul soffitto.


Perché se si ha poco da dire, di solito, c'è sempre molto... molto da ascoltare.

giovedì 8 dicembre 2011

giovedì 1 dicembre 2011

Il mio tasto dolente. Uno dei tanti.

Devo ammetterlo e fare una sorta di mea culpa. Negli ultimi anni molti dei miei ascolti si sono un po' limitati al "questo lo conosco e quello che ha fatto mi è quasi sempre piaciuto, vado sul sicuro" e, come ben saprete, questo modo di ascoltare la musica ha degli effetti collaterali. Uno è quello che, in acuni casi, porta a far si che le aspettive ti si rivoltino contro come un cane incazzato, l'altro è che così facendo ti perdi quelle che sono le novità succulente del panorama musicale contemporaneo. Parliamoci chiaro, i The Black Keys non sono certo la band dell'ultimo momento, anzi. Il duo proveniente dall'Ohio, che ai più - per il binomio chitarra/voce e batteria - farà venire in mente i White Stripes, è in giro da quasi dieci anni e all'attivo ha ben otto dischi e svariati EP. Troppo preso dai miei ascolti facili facili, me li sono persi completamente. Per dieci anni, appunto. Avevo sentito parlare più che bene del loro precedente lavoro in studio (Brothers, del 2010), ma stupidamente mi son lasciato scappare l'opportunità di conoscerli già da allora.

Caso voglia che in radio - anche loro STRANAMENTE distratti come me - si siano accorti solo ora di questa band e che nelle loro playlist ci sia finito il loro ultimo singolo, Lonely Boy, e che sia ormai da settimane in heavy rotation su svariati network nazionali. Siamo di fronte a un gran bel pezzo, nonché a un'altrettanto ottima selezione di brani, che mi ha subito colpito molto, soprattutto per le parti di chitarra e il sound particolarmente grezzo, trascinante e con echi quasi cinematografici. Sfido chiunque di voi ad ascoltare questo lavoro e a non immaginarsi una qualsiasi fra le canzoni che compongono questo disco compresa nella tracklist di una colonna sonora di un qualsiasi film di Tarantino o affini. Questo particolare, durante l'ascolto, mi ha ricordato il paragone dell'amico Ale che li ha definiti i Queens of the Stone Age 2.0 (un'altra band che personalmente reputo molto cinematografica). Dal canto mio questo suo pensiero l'ho inteso come un "Questa sarebbe potuta essere la band di Josh Homme se non si fosse fumato il cervello" e, anche se (sicuramente) non è quello che intendeva dire, è quello che comunque viene da pensare a me, uno che ha amato alla follia l'uomo delle storiche Desert Session e che oggi scopre una band di questo calibro.

In sitesi, con questo El Camino quello che abbiamo tra le mani è un disco di undici pezzi di ottimo rock'n'roll, con un suond decisamente 70's, che però non sa per niente di vecchio o di già sentito. Promossi e consigliatissimi.

giovedì 17 novembre 2011

Tutt'altro che un INCUBO - Datch Forum, 15 Novembre 2011

Son passati dodici anni dalla prima volta in cui mi sono imbattuto negli Incubus, era più o meno il 1999 e in radio e in TV impazzava Drive, singolo estratto da Make Yourself, album uscito in quello stesso anno. Per fortuna (loro) o purtroppo il pezzo venne passato così tanto da farmelo venire a noia, infatti l'amore, la fantomatica scintilla scoccò solo due anni dopo, nell'ottobre del 2001, quando la band diede alle stampe uno dei miei dischi preferiti dello scorso decennio, il loro quarto lavoro in studio (divertente leggere allora sul defunto TUTTO MUSICA il paragone con Led Zeppelin IV), Morning View. Fu amore al primo ascolto. Due anni più tardi, nel 2004, pubblicarono un altro album capolavoro, l'ambizioso A Crow Left of the Murder. Ambizioso per un semplice motivo: è stato registrato in nella sua interezza in presa diretta, cosa che, badando all'ottima fattura del materiale in questione, fa capire di che pasta è fatta la band capitanata dal (permettetemelo) bellissimo e talentuoso Brandon Boyd. Sfortuna vuole che in quello stesso anno mi trovai a passare il peggior momento della mia vita. Mi diagnosticarono una malattia abbastanza grave, che mi costrinse a sottopormi a dei trattamenti di chemio e radioterapia. La mia sfortuna ulteriore è che, durante un ciclo di terapia, mi portai un loro disco. Credetemi, da quel momento in poi, fino a pochi mesi fa, non sono più riuscito ad ascoltare un loro album per intero senza avere fortissimi conati di vomito. E tutto non perché cambiai opinione su di loro o iniziarono a farmi schifo, ma piuttosto penso fosse un collegamento inconscio con quel momento, che voi immagino sappiate (spero SOLO per sentito dire) cosa comporta.

Comunque, tornando alla band, nel frattempo uscì un solo disco nel 2006, Light Grenades, al quale non badai per i suddetti motivi. Subito dopo un doveroso tour promozionale, la band si prese quello che forse è ad oggi il loro più lngo periodo di pausa, infatti passano cinque anni prima che i cinque californiani si ripresentino sulla scena con altro materiale inedito. È appunto di quest'anno il loro If Not Now, When? che fin dal primo ascolto risulta essere un disco molto diverso dal precedente, ma anche dal resto del loro repertorio, e grazie al quale - miracolosamente - dopo sei anni, sono riuscito a ricucire un legame in maniera serena con una delle mie band preferite.

Quando ho saputo dell'ufficializzazione della loro unica data italiana per quest'anno, mi son fiondato a comprare i biglietti e martedì scorso son riuscito finalmente a vederli dal vivo dopo essere riuscito a perdermeli per anni. Un'ora e mezza di concerto. Un po' poco per la caratura e le capacità di questa band, ma, come si dice in questi casi, è stato breve ma intenso. C'è però una cosa che mi ha fatto pensare: pezzo dopo pezzo, ascoltando molto attentamente l'esibizione e prendendo nota della scaletta, mi son reso conto che il loro concerto era quasi totalmente incentrato sul disco appema uscito. Con una ricerca semplicissima in rete (un fan lo fa) si trova la scaletta del tour europeo (non son tutti come i Pearl Jam che cambiano scaletta ad ogni concerto, ahimé) che come al solito viene data alle principali testate specializzate. Quello che mi è balzato all'occhio è che la suddeta scaletta trovata on line è tutt'altro che una mera operazione commerciale, come invece spesso accade per altre band, bensì un vero e proprio collage della loro vent'ennale carriera. Sulla carta l'esibizione prevedeva che non avrebbero trascurato nessuno dei loro album, dando spazio a tutti i loro lavori in maniera pressappoco ecua, cosa che in pochi fanno. Per intenderci, molti artisti, quando esce un disco nuovo e devono promuoverlo, dedicano larghissimo spazio ai brani freschi di stampa, spesso trascurando i vecchi successi, cosa che in realtà mi sono accorto che gli Incubus hanno fatto SOLO nel nostro paese, a dispetto di quello che avevo letto spulciando in rete. La cosa mi ha lasciato un po' così, non dico deluso perché il loro ultimo disco mi piace e non poco, ma piuttosto mi è sembrato un tentativo estremo per farsi della pubblicità, per essere considerati in un paese dove del loro ultimo lavoro non ne ha parlato nessuno, ne TV ne emittenti radiofoniche.

Detto questo, posso ritenermi soddisfatto. Mi sarebbe piaciuto ci fosse qualche pezzo in più in programma, ma non mi sento di criticare le loro scelte perché, sul serio, hanno fatto un lavoro magistrale. Una band compatta, precisa e ben oleata negli ingranaggi, con un vocalist che si può definire tale: mai una stecca, mai un errore. Impeccabili. C'è chi li rimprovera di esser stati freddi... a me non è sembrato. Si tratta semplicemente di 'carattere'. Sono semplicemente fatti così. Si sapeva, non è una novità. Chi nasce tondo, non muore quadrato. È la loro natura di perfezionisti del suono. Boyd non è stato fermo un attimo per esempio, ma la gente ha avuto da lamentarsi perché non ha parlato col pubblico e le volte che lo ha fatto è stato solo per dire grazie. Ma cosa vi aspettatavate, che vi offrisse un pass per il backstage? Un numero di telefono? Una barzelletta? Son lì per suonare, non per fare public relations! È il loro ruolo, sta a loro il diritto di stravolgerlo e se a loro va di suonare e basta, lasciateli suonare e basta! Son lì per questo e speriamo lo rifacciano al più presto da queste parti.

SETLIST:
- Megalomaniac
- Pardon Me
- Adolescents
- Promises, Promises
- If Not Now, When?
- A Crow Left of the Murder
- Anna Molly
- Have You Ever
- In the Company of Wolves
- Defiance (Chitarra e Voce)
- Love Hurst (Chitarra e Voce)
- Talk Show on Mute
- A Kiss to Send Us Off
- Dig (Riarrangiata)
- Switchblade
- (Strumentale)
- Nice to Know You
- Drive
- Wish you Were Here

ENCORE:
- A Certain Shade of Green
- Tomorrow's Food

mercoledì 26 ottobre 2011

Alte aspettative, alte come uccelli in volo.

Era più o meno il 1995, io avevo dieci anni e quel pomeriggio ero in macchina con mio zio. Nello stereo girava un gran bel CD.

Le cose che ricordo e mi piace ricordare di quel periodo sono proprio i momenti di estrema serenità emotiva e i primi veri ascolti, che fossero radiofonici (in quel periodo, per esempio, nacque la passione per Radio Deejay) o meno. Lui, mio zio, era ed è un fedelissimo dell'alta fedeltà e in tutte le macchine che ha avuto non è mai mancato un impianto stereo di tutto rispetto. Lo stesso in casa, ha tutt'ora quell'impianto e quelle bellissime e potentissime casse che gli invidiavo allora e che gli invidio ancora oggi a distanza di anni. Ai tempi, grazie a lui e alla sua passione, conobbi i Depeche Mode di Violator, gli U2 di Zooropa, i Radiohead di The Bends, ma soprattutto gli Oasis di (What's the Story) Morning Glory. Quest'ultimo grazie al giro in macchina di quel pomeriggio. Col tempo lui ha continuato ad appassionarsi sempre più al modo con cui ascoltare musica e un po' meno al supporto, ed io, al contrario, ho iniziato ad affinare i miei gusti e a ricercare gruppi da ascoltare e dei quali invaghirmi rovinosamente. Nel '95, appunto, in radio impazzava il singolo Wanderwall e mio zio si innamorò del pezzo al punto di comprare il disco in questione. Allora non ero ancora un collezionista, ne avevo le finanze per poterlo essere, quindi se volevo ascoltare un CD, ascoltavo i suoi. In quel caso specifico ci misi veramente poco ad innamorarmi delle canzoni di quel disco, anche se entrambi condividevamo un pensiero comune sugli Oasis: senza Liam Gallagher alla voce, sarebbero stati una band infinitamente migliore. Bastava ascoltare nella tracklist la traccia successiva a quella citata, Don't Look Back in Anger, per rendersi conto dell'abisso che c'era tra le doti vocali dei due fratelli di Manchester. Il pezzo infatti era cantato da Noel e si sentiva lontano un chilometro che il chitarrista aveva maggior padronanza delle corde vocali, uno spiccato senso della melodia, una modulazione invidiabile e un tono di voce decisamente più piacevole da ascoltare. Lo pensavo e lo penso tutt'ora. Vi lascio immaginare la gioia provata alla notizia dello split degli Oasis; da una parte il ragazzaccio Liam con i suoi mediocri Beady Eye e dall'altra un Noel libero di scrivere (finalmente) solo per se stesso e per la sua voce. Mentre nel primo caso pare di imbattersi in una tribute band di John Lennon venuta male, con un disco all'attivo che definire 'un plagio del plagio del plagio che non sa di niente se non di già sentito' è poco, nel secondo l'attesa si faceva febbrile. Infatti il disco in questione è uscito sette mesi dopo quello della band del fratello e le aspettative erano diventate mastodontiche.

Il senso di tutto questo è che è da quando avevo dieci anni che aspetto un disco suonato e cantato dal solo chitarrista e, dopo sedici anni, ci siamo, è uscito e adesso posso finalmente godermelo. Il 17 ottobre viene infatti dato alle stampe il primo disco del progetto Noel Gallagher's High Flying Birds che, a ben vedere, è anche il primo disco scritto interamente da Noel dai tempi di - guarda un po' - (What's the Story) Morning Glory? Anticipato dal signolo The Death of You and Me, era già chiara la strada intrapresa dal musicista, ben diversa da quella percorsa fino a quel momento con la sua storica band. Il disco infatti suona molto meno rock del materiale composto e inciso in passato, decisamente più pop nelle melodie e folk negli arrangiamenti. Certo, le aspettative c'erano e in parte son state persino ripagate, ma non aspettatevi un disco da incorniciare. Le dodici tracce che lo compongono sono davvero buone, ma tutto sommato il lavoro nel complesso non ti fa urlare al miracolo, ne pensare di esser davanti ad un capolavoro, quasi a lasciare intendere che le cartucce buone le abbia già sparate tutte in passato. Rimane comunque il fatto che siamo di fronte a un buon disco pop, lontano anni luce da quello che potreste considerare un esercizio di stile, ma, al contrario, un insieme di canzoni piuttosto sentite e personali, con degli arrangiamenti decisamente più originali di quelli del fratello nel suo nuovo progetto e, oltre a tutto questo, c'è un ammirevole tentativo (riuscito) di allontanarsi dal marchio di fabbrica che ti faceva riconoscere un pezzo degli Oasis tra mille. Curioso anche il fatto che la produzione, la distribuzione e la pubblicità per questo lavoro siano state sovvenzionate dal musicista stesso che in un intervista alla domanda "Questo album lo hai fatto tu, lo hai finanziato tu?" ha confermato "Si, l'ho fatto io. Mi è costato molti soldi. Non ho sentito l'esigenza di farlo con una grossa etichetta discografica. Possono offrirti solo soldi e io ho già abbastanza soldi" a prova del fatto che il lavoro è tutt'altro che una trovata pubblicitaria spinta dalla tanto chiacchierata litigata che ha portato la sua band allo scioglimento. Certamente un altro punto a suo favore.


Complessivamente, prestando magari più attenzione ai testi (un altro punto di forza del songwriter inglese), riesce a crescere ascolto dopo ascolto. Insomma, comprandolo non buttereste via i vostri soldi, ma nemmeno fareste l'acquisto della vita.

mercoledì 19 ottobre 2011

L'Artista in Fuga

Era dai tempi di Ritual de lo Habitual che non si intravedeva un artwork in pieno stile Jane's Addiction sugli scaffali degli ormai (quasi) defunti negozi di dischi. Dopo l'ennesima reunion (si erano sciolti nel 1991 per poi riunirsi un decennio dopo, nel 2001, e sciogliersi nuovamente nel 2004 e ritrovarsi a calcare di nuovo i palchi assieme nel 2009, dopo altri cinque anni di stop) torna una delle band più importanti e significative del panorama alternativo losangelino, capitanata dal chitarrista Dave Navarro e niente popò di meno che dal cantante Perry Farrel, patron di uno dei carrozzoni musicali più famosi e interessanti al mondo, il Lollapalooza (ne hanno fatta parodia persino i Simpson con l'epico Homepalooza) che nei 90's ha portato in giro per gli Stati Uniti band del calibro di Nirvana, Pearl Jam, Red Hot Chili Peppers, Rage Against the Machine, Soundgarden, Alice in Chains e tanti altri.

Tornano i Jane's Addiction, appunto, e fin dalla copertina di The Great Escape Artist ti aspetti di imbatterti nelle sonorità immortalate in quei due bellissimi dischi (Nothing's Shocking del 1988 e il sopracitato Ritual de lo Habitual del 1990) che li avevano lanciati nell'olimpo del rock. Cosa che invece non era successa col predecessore (Strays del 2003) che, fin dall'artwork, a tutto faceva pensare, tranne che a un ritorno in grande stile della band di Mountain Song. Oltre al fatto che il disco non aveva una sola canzone che si avvicinasse minimamente allo stile del vecchio repertorio, in copertina, per la prima volta nella loro storia, non vi era immortalata nessuna opera d'arte concepita per l'occasione dall'eclettico cantante, bensì una foto photoshoppata su sfondo desertico dei quattro musicisti in posa per l'occasione. Cosa che più che farli apparire come la band originale, li faceva sembrare la coverband di turno.

Tornando al disco appena uscito, basta la opening track per rendersi conto che non riavremo la band di un tempo tanto facilmente e, in questo caso, pur essendo un nostalgico, direi che per fortuna non la riavremo! Un po' perché il prodotto non è male, un po' perché sarebbe un po' ridicolo sentire la band comporre e suonare oggi canzoni alla Been Caught Stealing. Il disco è relativamente corto (chi mi conosce sa che per me è un punto a loro favore): dieci tracce per meno di quaranta minuti che si lasciano ascoltare con piacere. Niente di nuovo o innovativo all'orizzonte, un buon disco rock con molti spunti interessanti, forse con poco mordente, ma comunque di buona fattura. Prescindibile per chi simpatizza, ma non ama.

venerdì 14 ottobre 2011

Adesso dormite fra le fiamme!


Attuale. Attualissima. Pare l'abbiano messa in diffusione in Parlamento dopo aver dato di nuovo fiducia al nano bastardo. Così, per farsi beffe di tutto e tutti. Bandiera Rossa ai molti pareva eccessiva: "Va bene prendere per il culo gli italiani" ha detto il ministro Maroni ai microfoni degli intervistatori "ma farlo anche con l'opposizione sarebbe davvero stato troppo. Abbiamo dignità e rispetto per l'avversario". Il tutto mentre beveva un bicchierino di vodka e faceva headbanging tutto fatto merda assieme a Calderoli e Borghezio. Bossi era in bagno a cambiare il pannolone. Pare che per la gioia se la sia fatta addosso.

martedì 4 ottobre 2011

Un mare di rimpianti.

Anche a me come all'amico Ale, i Bush son sempre piaciuti. Pur essendomi imbattuto in loro nel 1999 grazie al singolone The Chemical Between Us, pur essendo questo un pezzo estratto dal loro terzo disco e che quindi la cosa mi vedeva come il ritardatario di turno, c'è da dire che ho saputo far di peggio e cioè approfondire veramente la conoscenza nei confronti della band nel tardo 2006 quando si erano ormai sciolti da quattro anni, dopo un disco, Golden State (2001), che era un raro esempio di bellezza. In quel periodo, non che adesso siam messi meglio, era infatti assai raro riuscire a trovare un disco così bello dalla prima all'ultima traccia e la crisi mondiale della discografia non aiutava certo ad aver fiducia nelle band, visto e considerato che le idee iniziavano a scarseggiare; invece era facilissimo imbattersi in dischi composti dal singolone ad effetto con le restanti tracce a fare da riempitivi pietosi. Pur essendo un disco di poche pretese, di certo non innovativo per quanto riguarda la band e tantomeno la discografia, riusciva a farsi ascoltare tutto d'un fiato. C'è comunque da dire, che pur essendo un ritardatario, non sono rimasto con le mani in mano e, ai tempi, mi procurai l'intera discografia (in tutto quattro dischi: Sixteen Stone del 1994, Razorbalde Suitcase del 1997, The Science of Things del 1999 e il già citato Golden State) in tempo zero e non mi feci certo mancare quel tipo di ascolto che in molti definirebbero ossessivo, del tipo che metti su un disco e lo ascolti fino alla nausea. Ero così affascinato dalla voce di Gavin Rossdale e dal sound della sua band, che non ho ascoltato molto altro in quei mesi.

Ormai rassegnato a non poterli sentire più dal vivo, vi lascio immaginare come ho reagito alla notizia della reunion nel 2010! Ero entusiasta e non vedevo l'ora di poter sentire del materiale nuovo, soprattutto perché non c'è un solo disco che sia uno nella loro produzione che non mi sia piaciuto in toto. Ripensando a quello che era riuscito a fare il leader della band durante la carriera solista, mi son sempre chiesto come sarebbe potuto suonare quel materiale (discreto) con alle spalle la sua band storica. Qui arriviamo al punto della questione: quest'anno è uscito The Sea of Memories, l'atteso ritorno dei Bush che li rivede in gran rispolvero dal vivo e in studio, appunto. Purtroppo l'attesa non ha ripagato le mie aspettative. Mi son ritrovato ad ascoltare avido un disco che non va a segno, che non mi convince, non mi coinvolge e tantomeno si fa ricordare. Solo ieri ho provato ad ascoltarlo tre volte di seguito e un'altra volta stamattina. Niente. Non ce n'è nemmeno una canzone che mi ricordi con piacere e voglia di riascoltarla. La mia speranza era che il singolo fosse solo un tentativo bieco di aprire le danze all'ascolto dell'intero disco, una scelta poco azzeccata che però sarebbe stata blissata da un lavoro abbastanza bello da farmi dimenticare il passo falso. Immaginate la delusione nel rendermi conto che la canzone in questione, The Sounds of Winter, è addirittura una delle migliori in scaletta. Niente da fare, non credo ci sia da dare la colpa a qualcuno, semplicemente mancano le idee. Addirittura in alcuni dei ‘pezzi forti’ pare di sentire una tribute band, tanto che addirittura un brano come All Night Doctors ha gli stessi accordi di chitarra della bellissima Glycerine a fare da sottofondo, con tanto di linea metrica e melodica quasi del tutto uguale a un brano del Rossdale solista quale Love Remains the Same.

Peccato, davvero. Aspettiamo di riuscire a vederli dal vivo e poterci consolare col vecchio materiale di repertorio.


lunedì 3 ottobre 2011

Se non quando, proprio ora... "Se non ora, quando?"

Pare preistoria quando si pensa agli esordi degli Incubus, band che dalla metà fino alla fine degli anni ’90, assieme a Limp Bizkit e Korn, dominava le classifiche mondiali con la neonata scena Nu Metal, soprattutto se si pensa che sono ormai passati dieci anni da quando il modo di fare musica per Boyd & co. è cambiato quasi radicalmente. È infatti da Morning View (2001, quarto disco del quintetto californiano) che la band è riuscita a scrollarsi di dosso un’etichetta ormai scomoda, passando dalle schitarrate per masse di adolescenti affamati di distorsioni e skretch, a un sound più raffinato e completo. Degno di nota è il fatto che dal 2001 ad oggi, la band riesce a mettere assieme dischi che rasentano la perfezione del jazz, pur non avvicinandosi lontanamente a questo genere. Ottimo esempio di stile è quello dimostrato con lo stravolgimento totale dell’utilizzo di un membro quale il DJ che, da semplice ‘effettista’ di contorno, è riuscito a diventare un elemento importante quanto uno qualsiasi degli strumentisti del caso, riuscendo ad essere una parte basilare nel nucleo e nel sound della band, aggiungendo quel qualcosa in più che nessuno a mio avviso è riuscito a fare in ambito rock.

Nonostante le pressioni di un mercato discografico che da sempre vive nell'ombra del "formula del successo non si cambia", gli Incubus sono comunque riusciti a scrollarsi di dosso l’etichetta di un genere che li ha portati al successo e allo stesso tempo penalizzati con il secondo disco, S.C.I.E.N.C.E. (1997), passando dal sound di un lavoro transitorio come Make Yourself (1999) alla semi-perfezione di due dischi stupendi quali il già citato Morning View e il successivo A Crow Left of the Murder... (2004). Per carità, c’è stato il tempo anche di fare un mezzo passo falso fatto con il frettoloso e poco convincente Light Grenates (2006), ma nonostante tutto quest’anno riescono a consegnare alle stampe un signor disco che riesce ad entrare a pieni voti nella mia personalissima lista dei migliori ascolti di questo 2011. Questo If Not Now, When? ha il classico marchio di fabbrica Incubus, quello che te li fa riconoscere fin dalla prima nota, ma allo stesso tempo risulta essere anche un progetto molto ambizioso e diverso dai predecessori, visto che siamo davanti a un disco che fa della melodia il suo punto di forza assoluto. Questo materiale è di fatto un raffinato esempio di pop rock, dove la band per la prima volta riesce a mettere assieme un disco quasi interamente composto da ballad o comunque da canzoni prive dell’energia che contraddistingue il loro percorso creativo. Molto coraggiosi, soprattutto se si pensa che un disco del genere potrebbe annoiare i molti che erano abituati al loro lato più duro. Nel mio caso rimane però di fatto la prima volta che un loro disco riesce a convincermi fin dal primo ascolto.

Consigliato a quelli che si considerano audiofili. Raffinato.


sabato 24 settembre 2011

"A long, long, long, long time ago... before the wind, before the snow."

Più passa il tempo e più mi accorgo, grazie a certe piccole promesse che regolarmente infrango nei confronti di me stesso, del potere che la musica ha su di me. Chi mi conosce sa di cosa parlo, conosce il mio attaccamento morboso a quella che è forse la mia unica passione e ciò che essa comporta. Chi mi conosce sa anche cosa significa per me il collezionare in maniera compulsiva il formato analogico della musica che adoro e sa persino che esiste un criterio nel farlo e che è a dir poco maniacale. Tanto più, chi mi conosce, sa quanto sia difficile per me fare a meno dei pezzi del puzzle che compongono il quadro della mia poco preziosa, ma significativa, collezione di dischi.

Questa ossessione nasce un bel po' di anni fa, quando ancora quelle che ci si poteva permettere in casa erano le vecchie cassettine comprate dal marocchino. Me le facevo regalare da mio papà e le conservavo gelosamente in un raccoglitore che, molto probabilmente, è ancora in giro, da qualche parte in mezzo alle cianfrusaglie infantili abbandonate in garage. Ai tempi non avevo un lettore CD, solo mangianastri. Un giorno però, mio padre portò a casa quello che sarebbe diventato un compagno inseparabile. Un suo collega gli diede da riparare quello che aveva le sembianze di macro-lettore CD portatile, così vecchio e usato che bastava soffiare sul coperchio per far si che la traccia saltasse. Gli disse "Se riesci a ripararlo, tienitelo. Sennò buttalo pure". Non m'importava di quanto fosse malandato, ricordo ancora oggi la felicità di allora. Era bellissimo, ma non avevo un solo CD! Iniziai quindi a raccimolare con parsimonia qualche soldo, guadagnandomelo con piccoli favori casalinghi, così da potermi comprare il mio primo album originale, anche perché ai tempi non c'era la possibilità come oggi di duplicare così facilmente il materiale digitale. Direi anche per fortuna! Col tempo il mio interesse per la musica diventò sempre più grande, al punto che dall'ascoltarla solo seguendo un punto di vista sonoro, passai ad un punto di vista emotivo, iniziando a farlo con parsimonia e dedizione, al punto da maturare un certo gusto personale e accorgermi di arrivare nel negozio con le idee ben chiare. La mia maniacalità riguardo al formato musicale, però, si sviluppò durante il secondo anno (o secondo tentativo) di superiori, quando un mio compagno di allora, durante un cambio dell'ora, mi fece sentire un disco. Ricordo che mi innamorai quasi subito di quel sound mai sentito prima, tanto da rimanere sorpreso del fatto che fossero i Red Hot Chili Peppers. Allora la band spopolava con canzoni come Scar Tissue, Otherside e Californication. Per carità, sono pezzi che adoro tutt'oggi, ma fui spiazzato dal fatto che non sembravano la stessa band del disco che stavo ascoltando in quel momento. Californication, infatti, sembrava suonasse come se fosse il disco di un altro gruppo, con sonorità più ruffiane e canzoni facili da assimilare. Invece il disco che mi fece sentire Emanuele (Emme, per gli amici degli amici), suonava in una maniera diversa, in uno stile diverso, pur essendo gli stessi quattro ragazzi in entrambi i lavori. Inutile dirvi che il disco di cui parlo è BLOOD SUGAR SEX MAGIK, che si aggiudicò il primo posto fra i dischi che conservavo in casa come se si trattasse di un oracolo.

Oggi anche lui, come Nevermind dei Nirvana, compie VENT'ANNI. Infatti il caso vuole che i due dischi siano usciti, non solo lo stesso anno, ma persino lo stesso giorno.

Come potevo non dedicare un post al disco che mi ha aperto definitivamente occhi e orecchie? Per quanto riguarda i Red Hot (curioso il fatto che in Italia li si chiami così e invece in america siano i Chili Peppers) e quello che sono per me, Blood Sugar Sex Magik è il loro capolavoro assoluto, il disco senza macchia, una vera e propria pietra miliare del genere. Sia che si parli della loro carriera, sia che si parli di musica in generale, questo disco ha ispirato e aperto la strada a chiunque avesse a che fare con la musica di un certo tipo e livello. So per certo che in pochi mi darebbero torto al riguardo. Ero (e sono tutt'ora) così innamorato di questo lavoro, che a quindici anni l'ho quasi fuso a suon di ascolti. Conosco (conoscevo) a memoria la parte recitata da ogni singolo strumento: l'ho scomposto, ricomposto, smembrato, ricucito, tagliuzzato, incollato, fatto a coriandoli, lanciato in aria per poi raccoglierne ogni singolo pezzetto per appiccicarmelo addosso alla perfezione. Conoscevo a memoria ogni sussurro, ogni eco, ogni suono che non fosse quello degli strumenti. Assimilai ogni rumore, ogni stridolio, ogni colpo scandito da percussioni di varia natura percebìpibili nelle registrazioni, ogni cambio di tempo. Su pezzi come The Righteous & the Wiked o semplicemente sull'assolo di Funky Monks riuscivo ad avere persino quelli che poi si son rivelati piccoli orgasmi multipli. Iniziai allora ad amare il binomio Frusciante/Flea (Michael Balzary). Il primo per il suo estro creativo, il secondo per il suo modo animalesco di suonare il basso, tutt'oggi marchio di fabbrica che gli permette di essere considerato uno dei migliori bassisti al mondo.

Insomma, posso benissimo dire di aver scoperto prima i Red Hot Chili Peppers e subito dopo la mia sessualità. E non penso sia cosa da poco.

"Oh, mi hai asciugato!!"

Ci sono amici che, soprattutto (o quasi esclusivamente), qui al nord definiremmo "asciugoni". L'amico asciugone, per intenderci, altro non è che quello che parla sempre, quello dei discorsi ridondanti, quello che la parola zitto non sa assolutamente ccosa voglia dire e, ovunque tu vada, c'è la sua voce a far da colonna sonora in ogni momento e/o situazione. È quello che non interpelleresti mai per paura di non riuscire più a parlare, quello che sa tutto e gli altri non sanno niente, quello che tutti conoscono e che ad un certo punto tutti evitano. Però, alla fine, come fai a voler male ad un amico? Resta pur sempre uno delle persone più care che hai, uno che, nonostante tutto, al momento giusto una buona parola per te l'ha saputa dire. Ti ha coccolato con la sua presenza, ti ha leccato le ferite nei momenti peggiori... Insomma, diciamocelo: non si può smettere di voler bene a un amico, anche se è pesante.

Quasi tutti lo conoscono, quasi tutti gli vogliono bene, quasi tutti ci hanno avuto a che fare e più o meno tutti hanno sentito almeno una volta la sua voce. A volte è bello risentirlo, anche se ti da noia. Ci piangi assieme, ci corri in macchina, ci canti persino con lui. Ci sono momenti, invece, in cui riesce solo a metterti malinconia addosso o a farti incazzare a morte. Ci hai a che fare a tal punto che i migliori pianti li avete fatti assieme. Nessuno come lui riuscirebbe a descrivere quel preciso momento, quella sensazione, quello stato d'animo. Nessuno. A conti fatti, chiunque lo conosca bene, chiunque conosca la sua storia, i suoi trascorsi, sa da sempre che è e sarà sempre uno dei pochissimi amici su cui poter fare affidamento, uno dei pochi al quale chiedere aiuto in certi momenti. Insomma, parliamo di un amico vero.

Quale torto sarebbe il non parlare di lui oggi, proprio nel giorno del suo ventesimo compleanno. Mi sembrava doveroso ricordarlo così, dicendo tutto e dicendo niente:
AUGURI! BUON COMPLEANNO NEVERMIND!




"With eyes so dialated I've become your pupil.
You've taught me everything without a poison apple."


domenica 11 settembre 2011

La ritualità dell'11 settembre.


Questo blog non nasce come un blog politico o che tratta argomenti di cronaca o di sport o affini, e di certo non lo diventerà ora. Questo blog nasce come uno spazio incentrato sul parlare o commentare o condividere quelli che sono i gusti musicali del sottoscritto. Nonostante questo, però. mi sembrava doveroso dare un contributo, seppur non mio, alla vicenda riguardante quello che è la commemorazione di un decennale totalmente discutibile.


Qui di seguito un articolo molto interessante. Buona lettura.


"Sulla retorica del 'siamo tutti americani' che avvolse (e ancora avvolge), l'intero Occidente dopo gli attentati dell'11 settembre 2001 il filosofo francese Jean Baudrillard scrisse, con crudezza, con lucidità e con coraggio (e ce ne voleva moltissimo in quel momento) "che l'abbiamo sognato quell'evento, che tutti senza eccezioni l'abbiamo sognato - perchè nessuno può non sognare la distruzione di una potenza, una qualsiasi, che sia diventata tanto egemone - è cosa inaccettabile per la coscienza morale dell'Occidente, eppure è stato fatto, un fatto che si misura appunto attraverso la violenza patetica di tutti i discorsi che vorrebbero cancellarlo" ( J. Baudrillard, Lo spirito del terrorismo, 2002).
Per tutta la vita ho sognato che bombardassero New York e non posso essere così disonesto con me stesso e con i lettori da negarlo ora che il fatto è avvenuto. Eppure ho provato anch'io un istintivo orrore per quella carneficina, per quello sventolar di fazzoletti bianchi, per quegli uomini e quelle donne che si buttavano dal centesimo piano. E allora? L'America è una Potenza che da più di mezzo secolo colpisce, con tranquillità e spietata coscienza, nei territori altrui, che negli ultimi mesi della seconda guerra mondiale ha bombardato a tappeto Lipsia, Dresda, Berlino premeditando di uccidere milioni di civili perché, come dissero esplicitamente i comandi politici e militari statunitensi dell'epoca, bisognava "fiaccare la resistenza del popolo tedesco", che ha sganciato un terrificante, e probabilmente inutile, Bomba su Hiroshima e Nagasaki e che nel dopo guerra ha fatto centinaia di migliaia di vittime innocenti in ogni angolo del pianeta (lo scrittore, americano, Gore Vidal ha contato 250 attacchi militari che gli Stati Uniti hanno sferrato senza essere provocati). L'11 settembre invece gli americani, per la prima volta nella loro storia, venivano colpiti sul proprio territorio. Pensavo che questa tragedia avrebbe insegnato loro qualcosa: l'orrore di vedere le proprie case cadere come castelli di carta, seppellendo uomini, donne, vecchi, bambini, famiglie, affetti. Che gli avrebbe insegnato l'orrore dell'orrore ora che lo avevano vissuto sulla propria pelle. Che gli avrebbe insegnato che anche le vite degli altri hanno un valore, poichè tengono tanto alle proprie. Invece hanno continuato imperterriti. Come prima, peggio di prima. Loro hanno sempre la coscienza tranquilla, le tragedie degli altri non li riguardano, al massimo sono 'effetti collaterali'. Hanno cominciato con l'Afghanistan. Poteva esserci una ragione perchè da quelle parti stava Bin Laden, anche se nessuna inchiesta seria è mai stata fatta per dimostrare che dietro gli attentati alle Twin Tower o quelli del 1998 in Kenya e Tanzania ci fosse effettivamente il Califfo saudita (sarà il motivo per cui il Mullah Omar ne rifiuterà l'estradizione non accettando l'arrogante risposta Usa "Le prove le abbiamo date ai nostri alleati"). Ma dopo dieci anni di occupazione rimangono sul terreno 60 mila vittime civili la maggior parte delle quali provocate dai bombardamenti a casaccio sui villaggi e persino sui matrimoni. A stretto giro di posta è venuta l'aggressione all'Iraq: 650 mila vittime civili.Giuliano Ferrara sul Foglio (6/9) proprio mentre dichiarava di detestare l'iperbole ha definito l'11 settembre "l'attentato più grande e infame della storia". E' solo una delle tante tragedie della storia recente, forse quella che ci ha colpito di più ma non certo la più infame. E io mi rifiuto di piangere ogni anno, ritualmente e a comando, lacrime di coccodrillo per tremila vittime. Rituali che tentano di far entrare nel buio sgabuzzino del dimenticatoio tutte le altre. Che sono milioni."


Massimo Fini


venerdì 9 settembre 2011

martedì 23 agosto 2011

I'M WITH YOU - "Sono con te". Buffo, no?


Che sia stato un bene? Che la sua dipartita abbia portato nella band voglia di far respirare aria fresca ai fan? Non si sa, ma di certo in pochi avrebbero dato due lire ai Red Hot Chili Peppers (di nuovo) orfani di John Frusciante. Fatto sta che quest'aria nuova si respira, si respira eccome! Lo dico da grandissimo fan di John, ma il suo abbandono ha ridato vita a una band che con gli ultimi due dischi (By the Way del 2002 e il doppio Stadium Arcadium del 2006) mi aveva lasciato un amaro in bocca quasi indelebile. Invece Josh Klinghoffer fa il suo dovere e porta quella ventata d'aria fresca regalando un contorno chitarristico degno di nota, fortunatamente molto diverso da quello dei tre predecessori nella formazione della band di L.A.

Melodie messe al posto giusto, groove di batteria e di basso martellanti, con un Chad Smith e un Flea che non si sentivano così imponenti e tecnici dai tempi di One Hot Minute (1995), un Josh Klinghoffer che con le sue chitarre super-effettate non fa rimpiangere chi gli ha lasciato il posto e un Anthony Kiedis che pare abbia finalmente imparato a cantare.

Per ora i pezzi che preferisco sono la openig track, Monarchy of Roses (con un cantato molto simile alla loro celebre Warped) e a Brendan's Death Song, una ballata molto coinvolgente che pare sia stata la prima canzone scritta e incisa per questo ultimo disco.

Devo dire la verità: all'inizio, il singolo rilasciato a metà luglio, The Adventures of Rain Dance Maggie, mi aveva lasciato un po' di sasso, con l'amaro in bocca, diciamo. Questo può succedere; quando sei un fan sfegatato di una band che ha fatto della sua sregolatezza e del suo uscire dal binario dell'ovvietà pop il proprio punto di forza, non puoi fare altro che storcere il naso di fronte a un pezzo del genere. Però, sulla lunga distanza, dopo svariati ascolti, mi ricordo che i Beatles erano sfacciatamente pop e che io i Beatles li adoro e così, anche i peperoncini con questo loro I'm With You, riescono a convincermi andando a segno con un disco pieno zeppo di un pop/funk di una raffinatezza disarmante, mai lagnoso come brani in cui spesso ci si imbatteva nei precedenti due lavori in studio, con arrangiamenti e un groove per il quale sfido chiunque a rimaner fermo sulla sedia.


sabato 16 luglio 2011

Lacrime

"Ma io lascio che le cose passino e mi sfiorino,
perché non sono ancora in grado di comprenderle.
Essere deboli in un mare verticale,
sentire quanto i rischi possano aumentare...
E ODIARE PER SENTIRSI VIVI,
PER PERCEPIRE IL SOLO SENSO CHE HA.
E improvvisamente ritornare primitivi,
essere comici e tornare primitivi...
e bere il sangue del nemico
solo per gustarne la diversità"

(Il Mare Verticale, Paolo Benvegnù)



lunedì 11 luglio 2011

AFTERHOURS - Arena Civica/MJF, 09 Luglio 2011

"Cosa c'è? No. No, DEA non la facciamo stasera, vieni la prossima volta che te la facciamo."

È la terza volta in tre anni che riesco a vedere suonare dal vivo una delle mie band italiane preferite, gli Afterhours. È però la prima che riesco a vederli con il redivivo Xabier Iriondo che, dopo averli abbandonati nel 2001 per dedicarsi a sonorità che con la sua band sarebbero c'entrati poco e niente e a Soundmetak, il suo negozio/laboratorio di strumenti musicali artigianali, ritorna dopo quasi dieci anni a calcare i palcoscenici con la sua band storica, a quanto pare come collaboratore esterno per il tour e per la registrazione del disco nuovo, ma non si sa mai. Fatto sta che la sua presenza sul palco si sente, si sente eccome. La formazione a tre chitarre è qualcosa di devastante, nonostante gli ordini restrittivi riguardo al volume deciso dalla giunta comunale li penalizzi, si sente che il sound è quello giusto. Il concerto inizia alle 21.00 per finire alle 23.30, due ore e mezza tirate con molte pause, ma brevi (in tutto saranno quattro i dentro e fuori del gruppo). I molti pezzi tratti da Germi, Hai Paura del Buio? e Non è Per Sempre, alcuni lasciati così come ce li ricordiamo e altri, nello specifico Siete Proprio dei Pulcini, Pop (Una Canzone Pop) e Bianca (quest'ultima in una splendida versione acustica chitarra, voce e violino) riarrangiati in maniera tale da non far storcere il naso ai puristi, hanno reso questo concerto memorabile. Almeno per me, ovvio. Sarò un nostalgico o un fissato, chiamatemi come volete, ma sentire i pezzi su disco suonati finalmente dal vivo dalla chitarra che c'era allora, non ha prezzo. Sabato sera ho davvero amato questo gruppo, che com'è strutturato in questo momento riesce a risultare praticamente perfetto ai miei occhi e soprattutto alle mie orecchie. Peccato per il volume, davvero, ma "con quest'aria di cambiamento" non si sa mai. Insomma, bentornato Xabier e grazie Afterhours.

"Facciamo... adesso facciamo un pezzo... facciamo DEA. Non ci credi? Eh, fai bene a non crederci."

SETLIST:
La Verità Che Ricordavo
L’Estate
Germi
La Vedova Bianca
La Sottile Linea Bianca
È Solo Febbre
Ballata Per la Mia Piccola Iena
Bungee Jumping
Milano Circonvallazione Esterna
Pochi Istanti nella Lavatrice
Siete Proprio dei Pulcini
Il Sangue di Giuda
Pelle
Bye Bye Bombay
Carne Fresca
Pop (Una Canzone Pop)
Ci Sono Molti Modi
Quello Che Non C'è
Non Si Esce Vivi dagli Anni '80
Male di Miele
Voglio Una Pelle Splendida
Bianca (ACUSTICA: Voce, chitarra e violino)
Il Paese è Reale


domenica 10 luglio 2011

The King of Limbs live FROM THE BASEMENT

Ecco a voi l'esecuzione live completa dell'ultima fatica in studio dei Radiohead. Provate voi a suonarlo per intero un  disco così, poi venite a dirmi ancora che è un lavoro orribile.



giovedì 7 luglio 2011

Ed amare ogni cosa, perché non c'è altro da fare.

Il mio grosso limite, quando si parla di ascolti, è che sono fondamentalmente pigro. Difficilmente mi metto a spulciare sugli scaffali tra i nomi che non conosco e, peggio ancora, difficilmente mi riesce d’ascoltare tutto quello di cui sento parlare bene. Paolo Benvegnù, a conti fatti, lo conosco di nome su per giù dal 2007/2008 (degli Scisma, per dire – la sua ex band, a quanto pare decisamente famosa nella scena indipendente dell’Italia anni ‘90 – non so assolutamente nulla tutt’oggi), ma è solo nel 2009, grazie alla compilation pensata e assemblata dagli Afterhours per il San Remo di quell’anno, Il Paese è Reale, che ci ho sbattuto il muso contro. Incuriosito dall’operazione comprai il CD e, alla traccia numero due del disco, c’era un pezzo intitolato “Io e il Mio Amore”, un brano di Paolo che, senza se e senza ma, s’è rivelata poi la mia canzone preferita di tutta la raccolta.

Dopo essermi ripromesso di reperire altro suo materiale, appunto per la mia pigrizia, è passato un anno e mezzo prima che io riuscissi ad avere un suo disco ‘fisico’ tra le mani. Un po’ perché in quel periodo le mie priorità musicali si sono focalizzate su altro, un po’ perché, come per i Marta Sui Tubi (che il caso vuole siano anche una band molto apprezzata da Paolo), non è assolutamente facile reperire il suo materiale nei negozi di dischi e, infatti, mi è toccato reperire quasi tutta la sua discografia nei vari store on line dedicati.

Dicevo, appunto, che ci è voluto un anno e mezzo per riuscire a imbattermi in un suo disco nel mio negozio di fiducia e, in questo caso, trattasi del suo ultimo lavoro in studio: Hermann. La rete è piena zeppa di recensioni e riscontri più che positivi ed è difficile riuscire ad aggiungere altro al riguardo. Questo è un disco che difficilmente riuscireste a paragonare ad altro nella nostra scena attuale. Compatto, con dei testi così profondi da commuoverti canzone dopo canzone (non ce n’è una brutta), con dei bellissimi arrangiamenti che, pur essendo decisamente basici, ti si piantano in testa assieme alla melodia dettata da una voce, quella di Paolo, che ti si annida sotto lo sterno e non ti lascia, ma ti segue ridondante per tutto il giorno. Un disco che fa venire la pelle d’oca, che ti fa pensare, arrabbiare, ma spesso e volentieri anche amare ogni cosa, perché non c'è altro da fare.