Come si suol dire in situazioni del genere:
HO BUTTATO IL SANGUE!
"He's in love with rock'n'roll, he's in love with gettin' stoned, he's in love with Janie Jones"
La cosa che salta all'orecchio fin da subito, è che che questo The King of Limbs nasce senza nessuna prestesa; dissonante e fuori dagli schemi del comune pop rock al quale ci avevano abituati (bene) nei primi anni della loro carriera. La mia impressione è sempre stata quella che, dal 2000 in poi, ai cinque ragazzi di Abingdon (Oxfordshire), sia passata la voglia di fare musica con lo scopo di vendere o di piacere per forza alle masse, ma piuttosto con quello di riuscire a far cose per le quali andare fieri, sfidando i propri limiti con sperimentanzioni portate all'esasperazione. Il fatto è che, a parer mio, riescono tranquillamente nel loro intento e cioè quello di portarti ad ascoltare cose che se te l'avessero detto ai tempi della cassettina, ti saresti messo a ridere, o peggio, avresti bruciato il nastro per poter tornare ad ascoltare le chitarre distorte che ti facevano sentire il padrone del mondo. Il potere dei Radiohead è grande, perché il loro prodotto è talmente sincero e spontaneo che ti portano a fidarti ciecamente di tutto ciò che ti mettono nel piatto. Questo ultimo disco è un lavoro che al primo ascolto ti scivola addosso come se niente fosse, ma appunto perché sono i Radiohead e sai che dev'esserci qualcosa sotto, ti impunti e gli ascolti, se il primo non ti convince, diventano due, tre, quindici... quando invece, se un disco del genere fosse stato di un altro gruppo, avrebbe visto quasi subito il cestino del desktop. In questo caso, però, arrivi al punto che le otto tracce che lo compongono iniziano a far parte di te, incastrandosi perfettamente in ogni tuo stato d'animo, facendo sì che tu cada di testa in questo loop di suoni e sfumature che difficilmente avresti colto con i primi ascolti, pieni poi di chissà quali aspettative. E poi non riesci più a farne a meno.
Pur non cambiando rotta, però, qualche novità c'è. Infatti questo lavoro è caratterizzato dall'abbandono del digitale voluto fortemente dalla band, per un disco del tutto concepito per l'analogico. Infatti, nel virgolettato inventato qui sopra, una cosa vera e certificata c'è, e cioè che Grohl e i suoi Foo Fighters (con il redivivo Pat Smear in formazione - ex Germs, ex Nirvana - alla terza chitarra) hanno scritto e registrato in un garage e l'hanno fatto senza l'utilizzo di computer o apparecchiature computerizzate. Questo ritorno, che definirei tutt'altro che in sordina, regala ai fan datati una vecchia collaborazione oltre a quella con ciccio-Smear, infatti (in un pezzo e non in tutto il disco, come il chitarrista sopracitato) alle quattro corde nella decima traccia del disco, I Should Have Known, c'è un certo Krist Novoselic, che mi rifiuto di spiegarvi chi è. Se non lo sapete, fuori da questo blog!!! Eheh...
Come da titolo, questi quaranta minuti o poco più di disco sono composti dalle cose più belle in cui mi sia imbattuto da qualche mese a questa parte. I Marta Sui Tubi, album dopo album, riescono ad essere per me l'unico gruppo capace di farsi riconoscere fin dalla prima nota, senza però riuscire mai ad annoiare o a risultare scontati. In questi quaranta minuti c'è tutto: ironia, cinismo, sentimentalismo (mai banale), rabbia e disgusto nei confronti di una comunità che mai come ora viene tenuta stretta al guinzaglio mediatico. Un mix che al mio palato regala la sensazione dell'acqua fresca bevuta direttamente alla sorgente, sotto un sole cocente. È acqua, so che sapore ha (o non ha), ma nonostante tutto è sempre qualcosa di sorprendente il sollievo che si prova nel riempirsene la bocca. Ecco, cercavo appunto una metafora adatta per descrivere cosa sono per me i Marta Sui Tubi e il loro Carne Con gli Occhi in questo momento: acqua fresca che sgorga in un deserto musicale desolato e arido di contenuti.