Il mio grosso limite, quando si parla di ascolti, è che sono fondamentalmente pigro. Difficilmente mi metto a spulciare sugli scaffali tra i nomi che non conosco e, peggio ancora, difficilmente mi riesce d’ascoltare tutto quello di cui sento parlare bene. Paolo Benvegnù, a conti fatti, lo conosco di nome su per giù dal 2007/2008 (degli Scisma, per dire – la sua ex band, a quanto pare decisamente famosa nella scena indipendente dell’Italia anni ‘90 – non so assolutamente nulla tutt’oggi), ma è solo nel 2009, grazie alla compilation pensata e assemblata dagli Afterhours per il San Remo di quell’anno, Il Paese è Reale, che ci ho sbattuto il muso contro. Incuriosito dall’operazione comprai il CD e, alla traccia numero due del disco, c’era un pezzo intitolato “Io e il Mio Amore”, un brano di Paolo che, senza se e senza ma, s’è rivelata poi la mia canzone preferita di tutta la raccolta.
Dopo essermi ripromesso di reperire altro suo materiale, appunto per la mia pigrizia, è passato un anno e mezzo prima che io riuscissi ad avere un suo disco ‘fisico’ tra le mani. Un po’ perché in quel periodo le mie priorità musicali si sono focalizzate su altro, un po’ perché, come per i Marta Sui Tubi (che il caso vuole siano anche una band molto apprezzata da Paolo), non è assolutamente facile reperire il suo materiale nei negozi di dischi e, infatti, mi è toccato reperire quasi tutta la sua discografia nei vari store on line dedicati.
Dicevo, appunto, che ci è voluto un anno e mezzo per riuscire a imbattermi in un suo disco nel mio negozio di fiducia e, in questo caso, trattasi del suo ultimo lavoro in studio: Hermann. La rete è piena zeppa di recensioni e riscontri più che positivi ed è difficile riuscire ad aggiungere altro al riguardo. Questo è un disco che difficilmente riuscireste a paragonare ad altro nella nostra scena attuale. Compatto, con dei testi così profondi da commuoverti canzone dopo canzone (non ce n’è una brutta), con dei bellissimi arrangiamenti che, pur essendo decisamente basici, ti si piantano in testa assieme alla melodia dettata da una voce, quella di Paolo, che ti si annida sotto lo sterno e non ti lascia, ma ti segue ridondante per tutto il giorno. Un disco che fa venire la pelle d’oca, che ti fa pensare, arrabbiare, ma spesso e volentieri anche amare ogni cosa, perché non c'è altro da fare.
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